Il Testardo

Quando termineranno i crolli dei ponti?

Ecco che cade un altro ponte e si accartoccia su se stesso. Stavolta è capitato al ponte di Aulla in provincia di Massa Carrara, e per fortuna non ci sono state vittime, per la contenuta circolazione dovuta alla pandemia. Ma le polemiche già si fanno sentire. Il Sindaco, ad esempio, riferisce subito che aveva già da tempo investito l’Anas della esigenza di fare una perizia tecnica, che fatta a suo tempo aveva pronosticato una sostanziale agibilità del ponte: almeno così riferisce il primo cittadino.

Il ponte fu costruito nel 1908, ben 112 anni fa, e ristrutturato nel secondo dopoguerra. Il ponte di Aulla fu progettato dal pioniere del cemento: Attilio Muggia, che in quegli anni fu solo una delle tante progettazioni fatte dall’architetto e ingegnere, molto stimato ed apprezzato. Ora, come siamo abituati a sentire, la procura della repubblica ha aperto una inchiesta. Come da prassi, la consueta e necessaria inchiesta, ma oltre alle indagini si spera che si apra davvero anche una profonda discussione sulla manutenzione e costruzione di opere pubbliche.

Innanzitutto è necessario affrontare il tema ‘buco nero’ di cosa è accaduto nell’ultimo quarto di secolo in Italia, dato che è noto a tutti che né si costruiscono nuove opere, né si manutengono quelle realizzate da qualche decennio, quando non da un secolo e più, come il ponte di Aulla. Penso che questa situazione non derivi che in ridotta parte dalla mancanza di risorse pubbliche, o anche dalla paralisi burocratica originata dalla confusione cresciuta nel tempo di assegnazione compiti all’interno della sfera istituzionale italiana. Questi aspetti senza dubbio pesano, ma credo che la ragione principale sia dovuta alla ostilità contro il “cemento” (rafforzatasi abnormemente nel dopo Tangentopoli) che diventò di fatto l’agnello sacrificale per taluni necessario per il passaggio dalla prima alla seconda repubblica. Tanto è così, che se chiediamo a chiunque di elencarci opere significative realizzate da quel momento in poi, difficilmente ci saprà rispondere. Ma c’è un’altro riscontro che dimostra questa tesi: la sparizione sostanziale della grande impresa di costruzioni. Fino a trent’anni fa eravamo i più richiesti costruttori di grandi opere in America del Nord, in Europa, in Medio Oriente e in Africa. Dopo Tangentopoli e dunque dopo la fine di programmi infrastrutturali in Italia, il nostro posto nel mondo è stato preso da francesi e cinesi.

Ora, ritornando al tema delle manutenzioni, sembra chiaro anche alle persone più disattente che non si potrà andare avanti così ancora per molto, pena uno sfarinamento progressivo del nostro patrimonio infrastrutturale. Peraltro tutti concorrono nel pronosticare una difficoltà economica dell’Italia ancora più estesa di quella mai cessata dal 2008; allora è proprio il caso di investire nelle infrastrutture. È risaputo che investendo nelle infrastrutture si ottiene una espansione economica ancora maggiore che attraverso altri settori. Speriamo che gli italiani se ne rendano conto di nuovo. In caso contrario continueremo a rimanere stupiti dai crolli, con conseguenti indagini delle procure della Repubblica, e poi ancora il nulla.

Raffaele Bonanni

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