Il senso della Pentecoste

Quando lo Spirito Santo scese nel Cenacolo usò due segni eloquenti: quello del vento impetuoso, e quello del fuoco. Il primo quale segno di movimento, di novità impressa alla storia nella persona degli apostoli; fuoco, nella forma di lingue che “si dividevano” a partire da un centro luminosissimo, per posarsi su ciascun apostolo. A significare l’ardore infuso per l’annuncio della Parola.

La scelta di Dio

Vento impetuoso che piombò sulla casa, non distruggendola, ma riempendola, mentre il rumore sorprendeva la gente vicina. Era la festa di Pentecoste, stabilita il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua. La ricorrenza era connessa alla fine della mietitura del grano e celebrava la fedeltà di Dio che provvedeva al suo popolo. Perché Dio scelse quel giorno? Semplicemente perché era quello in cui Gerusalemme era piena di pellegrini per una delle tre feste maggiori prescritte da Mosè (Es 23,14): per iniziare la seminagione della Parola non si poteva scegliere occasione migliore.

Nuova realtà

Gli apostoli nel Cenacolo, sotto l’azione dello Spirito Santo, si trovarono immessi in una realtà prima non conosciuta; un’intensità di vita fatta di amore e di coraggio. Amore che è coraggio, e che è anche fortezza di fronte alle reazioni ostili del mondo e del demonio; infatti, nel Cantico dei Cantici (8,7) si legge: “Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo”. Nel libro di Geremia (20,9) si legge che il profeta spaventato dalle avversità voleva abbandonare la sua missione, ma non poteva, poiché nel suo cuore “c’era come un fuoco ardente”, al quale resistere significava distruggere se stesso. Sette i doni dello Spirito Santo, ma tutti hanno come sorgente comune la carità, l’amore.

Lingue nuove

La gente accorsa attorno alla casa cominciò a udire nelle proprie lingue native il Vangelo annunciato dagli apostoli. L’impedimento alla comunicazione, creato dalla superbia narrata nella torre di Babele (Gn 11,1s), cadeva per l’azione dello Spirito Santo. Il desiderio degli apostoli di diffondere il messaggio della salvezza nell’elezione a figli di Dio, data dal Battesimo, si rese immediatamente possibile nel dono delle lingue, che Gesù aveva promesso (Mc 16,17): “Parleranno lingue nuove”. Tante le lingue, o meglio tantissimi dialetti locali, allora: bisognava superare le barriere linguistiche per seminare la Parola. Pietro vide lo Spirito Santo effondersi su dei pagani, che lo ascoltavano credendo. Essi ricevettero il dono di “parlare in altre lingue” mentre davano gloria a Dio diffondendo quanto avevano ascoltato, e ciò prima del battesimo (At 11,46). Subito, così, i circa dodici uomini divennero operativi per il Vangelo.

La carità

Il gruppo che Paolo battezzò (At 19,5), imponendo poi le mani per la confermazione, cominciò subito a parlare in lingue e a profetare. Questo dono si trova, nella chiesa di Corinto, in modo alquanto alterato, rispetto al suo corretto scopo: quello di consentire, in particolare in un raduno di preghiera senza limiti di accesso, la diffusione del  Vangelo. Paolo, infatti, parla del dono della “varietà delle lingue” (1Cor 12,10), e dice, ancora, (1Cor 13,1): “Se parlassi le lingue degli uomini”. L’annuncio si avvalse del dono delle lingue, ma la sua anima fu la carità.

Quando noi parliamo dello Spirito Santo, dopo tanto razionalismo, ci soffermiamo molto sui suoi carismi, e forse, come già frate Leone con san Francesco d’Assisi, ci sentiamo inferiori a chi ne possiede. Francesco fece comprendere a frate Leone che la vera letizia non consiste nell’avere carismi straordinari, ma nell’avere la carità che regge con slancio anche le offese e le percosse.

Paolo a Corinto si trovò, come si sa, in una situazione complicata, e non sminuendo il valore dei carismi, presentò la via migliore, quella che sta alla radice di tutto, cioè la carità. Sappiamo ciò che scrisse ai Corinzi (1Cor 13,1s): “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo che rimbomba o come cembalo che strepita. E se avessi il dono della profezia (…), ma non possedessi la carità, non sarei nulla…”. La carità, l’amore verso tutti, sempre, ad ogni costo, come si proponeva fermamente san Giovanni XXIII, è la forza che diffonde il Vangelo (Cf. 2Cor 5,14).

La diffusione dell'amore

L’amore di Dio riversato nel cuore degli apostoli (Cf. Rm 5,5), come fuoco sospinto dal vento, cominciò a diffondersi sulla Terra. Amore a Dio, sapendo che egli è Amore (1Gv 4,16). Amore fraterno, verso tutti, secondo il comandamento (Gv 15,12): “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”; cioè pronti a dare la vita per gli altri, poiché (Gv 15,13): “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. Cristo parla di amici, non ha mai chiamato nemico nessuno, poiché dire “Tu sei mio nemico” è fare una dichiarazione di guerra; e la guerra è questa: uno dei due è di troppo. Cristo ha avuto e ha molti nemici, ma a nessuno dichiara guerra, offrendo sempre la misericordia della riconciliazione.

Il comandamento nuovo

Sì, Cristo comanda l’amore fraterno fondato su di lui, poiché tale amore sorpassa quello umano, che è limitato e per di più appesantito dalla carne che tende incessantemente a ostacolare l’azione dello Spirito Santo (Gal 5,17): “La carne ha desideri contrari allo Spirito”. Amore fraterno che sorpassa immensamente ogni etica filosofica, poiché è dato dallo Spirito. Amore, che vuole l’abbraccio della croce (Mt 16,24) per portare gli uomini ad essere vivi della vita di Cristo (Gal 2,19: “Sono stato crocefisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me”), così che vicendevolmente si amino come lui ha fatto, nel desiderio di fare entrare tutti nella comunione dei santi, che è la Chiesa (1Gv 1,3).

Il Signore Gesù non ha espresso il comando di essere amato, ma il primo comandamento lo chiede (Dt 6,5; Mt 22,37): “Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”. Gesù chiede una risposta d’amore (Cf. Gv 21,16s), dopo avere tanto amato, e per primo. Tale risposta non può essere data se non nell’obbedienza ai suoi comandamenti (Gv 14,15; 15,10; 1Gv 2,3).

I comandamenti elevano l’uomo sul piano altissimo del disegno di Dio, e perciò sono comandamenti dati dall’Amore. Nel contempo sono forza di dominio sulla carne, sempre pronta a fare dell’uomo un suo schiavo. Comandamenti forti per la carne da soggiogare, ma che per lo spirito sono (Mt 11,29) giogo dolce e peso leggero.

Vero uomo

Anche Cristo ha obbedito. Obbedito per una missione che richiedeva di sostenere, nella forza dell’amore, l’urto brutale del mondo, il cui principe è Satana (Gv 12,31; 14,30; 16,11), e ciò fino alla morte e alla morte di croce. Anche Cristo aveva un io, e perciò era sensibile alle offese, all’odio. Anche lui aveva una carne che, benché immacolata, rigettava il dolore. Nell’orto degli olivi sperimentò l’angoscia, la paura, ma vinse consacrando se stesso (Gv 17,19) con l’obbedienza. Grazie all’obbedienza anche gli apostoli furono sigillati nella verità (Gv 17,19), resa vivificante dallo Spirito di verità (Gv 14,17; 16,13; 1Gv 4,6; 5,6).

Dal Cenacolo uscirono uomini pieni di fede, di speranza, di carità. Uomini sigillati nella verità dalla suprema virtù di Cristo: l’obbedienza. Infatti, senza l’obbedienza che cos’è la fede, se non fede morta (Gc 2,17)? Senza l’obbedienza che cos’è la speranza, se non speranza stolta (Sap 3,11; 5,14)? Senza l’obbedienza che cos’è la carità, se non finzione (Rm 12,9)?