Editoriale

Quel “giudice ragazzino” che viveva secondo il Vangelo

Chi ha studiato i diari di Rosario Livatino – giudice, ma prima ancora uomo e credente – attesta di incertezze, di sfoghi spontanei, di lacerazioni interiori e di silenzi. Il che non ne fa un testimone meno prezioso per chi ebbe la fortuna di conoscerlo di persona o per chi ne ha solo sentito parlare. No: questi tratti di penna, queste semplici confidenze, ce lo rendono ancora più umano, vero, vicino.

Cristiano convinto e maturo non voleva essere un eroe, ma compiere semplicemente e il suo dovere coniugando le ragioni della giustizia con quelle di una e profonda fede cristiana.

Il Cristo crocifisso, condannato innocente morto per la redenzione dell’umanità, presente nell’aula delle udienze era per lui un richiamo alla carità e alla rettitudine. L’aver avuto sul suo tavolo il Vangelo e il Crocifisso non erano segni di un devozionalissimo bigotto, ma perenne provocazione al suo compito di operatore della giustizia.

Rosario Livatino ispirò la sua vita al Vangelo, sentì profondo il fascino di Dio come garante di libertà e di giustizia. Sulla coerenza fra parola ascoltata e praticata disse: “Non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili”. Questa frase ce ne richiama una di un martire del secondo secolo S. Ignazio di Antiochia che scrisse: “E’ meglio essere cristiano senza dirlo che dirlo senza esserlo”. Il Servo di Dio Rosario Livatino è forse la più bella figura di laico cristiano impegnato tra le vittime della mafia siciliana, che all’integrità della fede cattolica, ha associato una fedeltà che si è fatta impegno civico e sociale fino al martirio. Egli ha raggiunto la santità attraverso una vita di impegno civile e professionale, tipicamente laicale.

La notizia della sua beatificazione ha suscitato immediatamente una grande eco: non solo per la figura in sé, certo molto nota e apprezzata fin dal giorno uccisione, quanto per il fatto che, almeno in epoca recente, sarebbe la prima volta che una decisione di questo genere riguarda un magistrato nell’esercizio del suo dovere, come da alcuni è stato subito rilevato. Nel processo canonico, la convinzione che si trattasse di martirio è maturata gradualmente durante l’ascolto dei testimoni, fino a indurre i promotori della causa a richiedere, come avvenne anche per don Puglisi, il passaggio da un processo per l’accertamento dell’eroicità delle virtù a un processo per un caso di martirio.

Durante il processo è emerso che il “martirio formale” subìto da Rosario Livatino si fonda su una vita ordinaria nella quale ha esercitato le virtù della fortezza, della giustizia e della carità. Il collegamento tra la giustizia e la carità lo portò all’impegno civile per la promozione della legalità e dell’onestà. Egli per affermare gli ideali della giustizia e della legalità ha pagato con il sacrificio della vita il suo impegno di lotta contro le forze violente del male. 

mons. Michele Pennisi

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