Editoriale

La “buona politica” che il Papa sollecita

Monito del Papa alla classe dirigente. Secondo Francesco “c’è bisogno di buona politica”. Perché sono le persone che “fanno la differenza”. Ricevendo in udienza i giovani del “Progetto Policoro” promosso dalla Cei, Il Pontefice ha evidenziato che “oggi la politica non gode di ottima fama. Soprattutto fra i giovani. Perché vedono gli scandali, tante cose che tutti conosciamo. Le cause sono molteplici. Ma come non pensare alla corruzione, all’inefficienza, alla distanza dalla vita della gente?” Proprio per questo, sottolinea Jorge Mario Bergoglio, “c’è ancora più bisogno di buona politica“. La differenza “la fanno le persone”. E “lo vediamo nelle amministrazioni locali. Un conto è un sindaco o un assessore disponibile. E un altro è chi è inaccessibile. Un conto è la politica che ascolta la realtà, che ascolta i poveri. E un altro è quella che sta chiusa nei palazzi, la politica ‘distillata‘”. E prosegue: “Mi diceva un tecnico che se per un anno non si facessero armamenti si potrebbe eliminare la fame nel mondo. Dunque ci vuole una migliore politica”.
Una Chiesa in uscita. Al servizio dei poveri. Un esempio per la società e la politica. “In questo tempo – evidenzia la presidenza della Cei-. Papa Francesco ci ha aiutato a capire quanto il Vangelo sia attraente. Persuasivo. Capace di rispondere ai tanti interrogativi della storia”. La Chiesa-ospedale da campo ascolta le domande che affiorano nelle pieghe dell’esistenza umana. E, puntualizza l’episcopato italiano, “il Papa ci ha insegnato a uscire. A stare in mezzo alla strada. E soprattutto ad andare nelle periferie. Per capire chi siamo. Possiamo conoscere davvero noi stessi solo guardando dall’esterno. Da quelle prime periferie che sono i poveri”. Il Pontefice, affermano i vescovi d’Italia, “ci ha spinto a incontrarli, a vederli, a toccarli. A fare di loro i nostri fratelli più piccoli. Perché, come ci ha ricordato più volte, la nostra non è una fede da laboratorio. Ma un cammino, nella Storia, da compiere insieme”.

Francesco elenca le domande che ogni buon politico dovrebbe farsi. Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace sociale ho seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato? La vostra preoccupazione non sia il consenso elettorale né il successo personale. Ma coinvolgere le persone, generare imprenditorialità. Far fiorire sogni, far sentire la bellezza di appartenere a una comunità. La partecipazione è il balsamo sulle ferite della democrazia. Il politico è un servitore. Quando il politico non è un servitore è un cattivo politico, non è un politico“. La guerra è “il fallimento della politica”. E “si alimenta del veleno che considera l’altro come nemico”. La guerra “ci fa toccare con mano l’assurdità della corsa agli armamenti e del loro uso per la risoluzione dei conflitti”. avverte Jorge Mario Bergoglio.

foto Insidefoto/Image

Francesco ha accolto l’eredità di Benedetto XVI. E accompagna laici e consacrati a partire dall’Anno della Fede. Incoraggiandoli a vivere da cristiani “nelle tante contraddizioni, sfide e pandemie di questo mondo”, rimarcano i presuli italiani. Fin dall’inizio della sua missione sul soglio di Pietro il Papa ha colto quelli che il Concilio Vatican chiama i segni dei tempi. Lo ha fatto di fronte alla guerra in Siria. a Cuba. E lo fa continuamente davanti a un mondo europeo impaurito e un po’ miope. Concentrato su di sé senza una visione del futuro e della storia nella sua complessità. Sono da leggere nella prospettiva di una Chiesa che si fa vicina senza paura a chi soffre,(come una madre ai figli) i suoi viaggi a Lampedusa. In Albania, in America Latina, in Africa. Dove ha voluto aprire il Giubileo straordinario della misericordia in un paese poverissimo e travagliato dalla guerra come il Centrafrica. In questo papa Francesco coglie una missione della Chiesa per il mondo e nel mondo. E non solo una Chiesa che parla ai “vicini“. L’ecumenismo di papa Bergoglio si riallaccia a un incontro di Giovanni XXIII. Quello con Jules Isaac del 13 giugno 1960 che gli parlò della teologia del disprezzo e dell’ antisemitismo. Giovanni XXIII conosceva la sofferenza degli ebrei da delegato apostolico a Istanbul, dove si era adoperato per la loro salvezza. Ma il “Papa buono” conobbe prima a Sofia, poi a Istanbul, poi a Parigi e infine a Venezia anche il mondo dell’ortodossia e della riforma. Con cui si aprì a un rapporto cordiale. Un modello di dialogo per l’umanità intera.

 

 

 

Giacomo Galeazzi

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