Nell’oratorio dell’inclusione si costruisce il domani

I bambini che oggi imparano a giocare insieme, domani saranno gli adulti capaci di fare squadra in ogni circostanza. C’è solo una crisi più grave di quella economica: la crisi educativa. Dopo un anno e mezzo di pandemia, è indiscutibile la portata devastante dell’”emergenza nuove-generazioni”. I giovani, già duramente penalizzati dal depauperamento sociale e dai continui tagli alle risorse pubbliche, hanno pagato un prezzo altissimo alla sofferenza individuale e collettiva determinata dal Covid. Ci si era illusi, alla fine dello scorso decennio, di poter scaricare totalmente sulle spalle delle famiglie le responsabilità formative e l’accompagnamento verso l’età adulta facendo a meno dei corpi intermedi e della presenza sul territorio. Amaramente abbiamo sperimentato che le cose non stanno affatto così! Maggiori sono i disagi dei nuclei familiari (alle prese con problemi occupazionali e di prospettive socio-culturali) tanto più risultano danneggiate proprio l’educazione dei ragazzi e la loro socializzazione. L’istruzione non è più considerata un “bene-rifugio”, cioè un investimento sul futuro. E così chi va male a scuola trova con maggiore difficoltà aiuto e supporto perché l’istruzione ha smesso di essere, nell’opinione comune, la palestra del domani.

In questo modo cresce il numero di minori privi di strutture e opportunità formative, ricreative e socializzanti. Le rilevazioni statistiche descrivono un preoccupante aumento di disturbi psicologici, istinti di aggressività, alienazione da dipendenza tecnologica, attitudine all’autolesionismo, fragilità emotiva. Siamo in periodo olimpico, i nostri nonni ricordano che negli oratori e nei campetti parrocchiali si giocava a ripetere le gesta dei campioni di Roma 1960. E divertendosi imparavano a stare al mondo, maturavano in ambienti sani e spontaneamente istruttivi. Alla base di tutto c’era ( e deve tornare ad esserci) un impianto valoriale saldo e diffuso. In quei pomeriggi allegri e propositivi sono cresciuti gli italiani che hanno reso il nostro Paese la quarta potenza economica mondiale. Scoccava lì la scintilla dell’eccellenza dell’artigianato e soprattutto si plasmava il tessuto connettivo di una società solidale e capace di affrontare prove laceranti come gli anni di piombo. È lì, tra pallone e catechismo, che si è strutturato un modo di essere comunità. Attraverso la condivisione di tappe di crescita, appuntamenti di passaggio e con il superamento di momenti difficili.

Come non pensare alla ricostruzione post bellica, al boom economico e all’edificazione di un welfare ammirato e studiato in tutto il pianeta? Mai quanto oggi, per noi cristiani impegnati nella storia, c’è bisogno di un oratorio che sappia reinventarsi in maniera creativa e coraggiosa. Integrando l’azione delle altre agenzie educative. Serve l’inventiva di cui don Oreste Benzi esortava a dare testimonianza per corrispondere alle mutate esigenze di una gioventù assetata di senso, inclusione e modelli credibili. Se i giovani manifestano segni di disorientamento è perché noi adulti abbiamo per troppo tempo smesso di affiancare il loro cammino, ossia, a proporre occasioni di maturazione ed esperienze stimolanti ed arricchenti. La realtà è più ampia e motivante dello schermo di uno smartphone e la verità si scopre nella condivisione e non sui motori di ricerca.

È con questo intento che anche nella mia parrocchia di San Nicolò a Fabriano è stata riaccesa la fiaccola dell’oratorio: luogo aperto nel quale ridefinire i contorni di una collettività dispersa, frammentata e confusa. Non erano poche le difficoltà, i timori e le perplessità che potevano portare a identificare lo strumento-oratorio, con una soluzione di corto respiro e poco attuale. Siamo andati controcorrente rispetto a questa mentalità che tende a vedere ostacoli senza guardare orizzonti. E invece per tutta l’estate bambini e ragazzi di ogni estrazione, cultura, religione, età, qui stanno trovando il terreno comune per i loro sogni e per la loro richiesta di trasformare l’io in noi. Al sicuro dai pericoli della strada e dalle minacce disgregatrici di un disorientamento generale che precipita i più fragili in una condizione di abbandono che simboleggia drammaticamente la cultura dello scarto con cui troppi adulti si deresponsabilizzano. Mediante una comoda delega a sempre meno assistite istituzioni scolastiche dei compiti e delle prerogative della funzione genitoriale.

Da dove è arrivata l’ispirazione? Dal santo dei millennials, cioè dal quindicenne Carlo Acutis beatificato da Papa Francesco perché capace di trasmettere a tanti suoi coetanei la bellezza di riconoscersi nel Vangelo. Come sacerdote ho accolto la sfida di comunicare ai più piccoli la freschezza del messaggio evangelico sulle orme di un ragazzo come loro. L’oratorio perciò come laboratorio di una futura società nella quale si sappia cooperare e mettere insieme i talenti e le risorse di una contemporaneità globalizzata nella quale il seme buono produce frutto in proporzione alla nostra disponibilità a farci strumento di inclusione. Nell’accettazione di iniziali lontananze in grado di rivelarsi nuove opportunità di crescita. Non conta da dove si proviene, ciò che conta è dove si è diretti. Se ciò oggi è possibile in un oratorio, domani potrà esserlo in ogni ambiente sociale.