Non rubare la speranza ai poveri, in questo momento siamo tutti poveri

Che strano, andiamo ogni giorno in guerra rimanendo al caldo a casa; i nostri nonni, rinchiusi in fetide e gelide trincee, ci avrebbero invidiato. Il lume della clessidra si è ristretto; le giornate ci appaiono lunghissime, le notti insonni, interminabili. Confinati in una clausura non cercata ma imposta, siamo costretti a fare i conti con noi stessi, le nostre paure, la nostra coscienza. Questo tempo che ha spaccato in due le nostre esistenze, può essere estenuante, intriso di ansia e ribellione, oppure può trasformarsi in una benedizione. Ci ritroviamo da soli, con i nostri pensieri, le nostre fantasie, le nostre letture, la nostra fede. In queste ore dove tutto appare fragile, precario, provvisorio, il dialogo con Dio è consolazione, coraggio, forza. Nella strana situazione in cui siamo stati scaraventati, le domande di sempre si fanno più impellenti.

Qualcuno – non solo tra chi non crede – ritiene che il ricorso a Dio, l’insistenza nel chiedergli di liberarci da questo orribile flagello non sia preghiera vera e cristiana. Dio, secondo costoro, non può – o, meglio, non deve – liberarci da un male di cui non è responsabile. Non sono d’accordo. Con papa Francesco, e con tutti i credenti del mondo, continuo a chiedere, a ogni ora del giorno e della notte: “Signore, liberaci dal male, da ‘questo’ male”. Chi ha confidenza col Vangelo, sa bene che Gesù stesso ci ha invitato a pregare, digiunare, insistere, senza il timore di essere indiscreti. Dio è mio padre e con mio padre posso permettermi ogni confidenza. Egli ascolta sempre le nostre preghiere, anche quando le sue risposte non corrispondono alle nostre attese. Invocare l’aiuto di Dio, rifugiarsi tra le sue braccia, è divinamente umano, umanamente divino.

Tra i principali doveri di ogni uomo c’è quello di pesare le azioni e le parole per non rubare la speranza ai poveri. E in questo momento, poveri lo siamo tutti, apparteniamo tutti alla stessa schiera. Non sempre lo abbiamo compreso, è vero. I nostri egoismi, le ingordigie, gli orgogli personali, regionali, nazionali, tentano in ogni modo di congelare il moto – bello, caldo, spontaneo – di solidarietà che si sprigiona dai nostri cuori per volare verso chiunque condivide con noi “la più bella avventura”. In queste ore stiamo dando importanza a ciò che veramente è importante. Stiamo separando il grano dalla pula.

Verso gli scienziati, i medici, il personale sanitario, le forze dell’ordine, i meravigliosi volontari, sentiamo crescere una riconoscenza grande. Non sempre fu così. Questo è il tempo della verità. Una verità detta per dovere e per amore.  Da più parti mi viene chiesto se sono preoccupato per il diffondersi dell’epidemia nella mia amata terra campana e meridionale. Certo che lo sono. Non è un segreto che le nostre strutture sanitarie, i posti letto, le sale intensive non sono paragonabili per numero ed efficienza a quelli del nord. Ma lo sapevamo anche prima.

Da anni stiamo denunciando lo stato in cui versano le pubbliche strutture ospedaliere. Le nostre voci sono state, di volta in volta, silenziate, minimizzate, perfino ridicolizzate. Nei centri oncologici le liste di attesa per una visita o un esame diagnostico sono lunghissime? C’è pur sempre l’intra moenia, un sistema che taglia fuori i più poveri e avvantaggia i benestanti. Essendo il cancro un morbo devastante ma non contagioso, il problema è passato in sordina. L’orribile pandemia che stiamo vivendo invece ci costringe a prenderci cura della vita dei più poveri, fino ad arrivare a quei fratelli che Francesco ha definito “scarti”.  Nessuno s’ illuda, la società necessita di scienziati e di spazzini; di medici e becchini; di amministratori e ristoratori. Insieme. Sapendo e insegnando ai giovani che c’è più gioia nel dare che nell’avere. Insieme, implorando Dio di illuminare politici, medici, scienziati. E liberarci da questa sciagura. Preghiera ingenua? Ottimo, siamo sulla buona strada: non ci ha detto Gesù che il Regno dei cieli lo rapiranno i piccoli?