Editoriale

Quegli abbracci fuori programma con i “Fratelli maggiori”

Sono passati 35 anni da quel pomeriggio che i cronisti non esitarono a definire “storico”. Erano le 17.15 del 13 aprile 1986 quando Papa Giovanni Paolo II fece il suo ingresso nella Sinagoga di Roma, si rivolse a braccia aperte verso il rabbino capo della comunità ebraica romana Elio Toaff e scambiò con lui un abbraccio cordiale.

“Un gesto di riparazione che doveva ricomporre una frattura di secoli – commentò molto tempo dopo Toaff – io mi sentii schiacciare dal peso di tutto il dolore che il mio popolo aveva patito in duemila anni”.

Era un pomeriggio di primavera inoltrata a Roma, 35 anni fa. Gli abbracci di Giovanni Paolo II e Toaff nel corso della cerimonia furono due. E non erano stati certamente previsti dal pur rigoroso cerimoniale.

Nei discorsi ufficiali il Papa condannò tutti gli atti di discriminazione, di limitazione della libertà religiosa. Condannò con forza l’orrore della shoah e certamente pensava – mentre pronunciava quelle parole – ai tanti amici ebrei che avevano condiviso la sua giovinezza nella nativa Wadowice. Fu proprio nella cittadina polacca che strinse una intensa amicizia con Jerzy Kluger che poi rimase uno dei suoi più cari amici tutta la vita.

In quel tempo a Wadowice ebrei e cattolici frequentavano le stesse scuole, giocavano insieme sulla stessa piazza, condividevano amicizie familiari e frequentazioni domestiche. La stessa famiglia del piccolo Karol viveva in un appartamento di proprietà di una famiglia ebrea. Jurek e Lolek (i diminutivi di Jerzy Kluger e Karol Wojtyla) trascorrevano ore di fanciullezza spensierata che si interruppero con l’arrivo della grande follia del nazismo.

Un vissuto, quello di Giovanni Paolo II, che non poteva non tornare nella mente e nel cuore mentre abbracciava Elio Toaff. Ed anche mentre ascoltava le parole franche con le quali il presidente della comunità israelitica romana Giacomo Saban rimproverava anche alla Chiesa malefatte e silenzi contro gli ebrei. Giovanni Paolo II citò il decreto “Nostra Aetate” dicendo che si deploravano “gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei ogni tempo da chiunque”. E ripetette con forza: “da chiunque”. A quella sottolineatura franca e sincera, tutti i presenti applaudirono in modo caloroso e commosso.

Ed ancora più forte fu l’emozione quando il Papa polacco disse che la religione ebraica non è “estrinseca” alla religione cristiana ma ne è in qualche modo “intrinseca”. “Abbiamo quindi verso di essa – concluse il Papa – dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori”. Proprio questa frase colpì profondamente tutti gli osservatori.

Qualche anno più tardi, nel 1994, Giovanni Paolo II riaprì le relazioni diplomatiche con Israele e più volte ribadì con forza la condanna assoluta della Shoah che ebbe modo di definire una macchia indelebile per l’umanità.

Dall’incontro di 35 anni fa nacque anche una profonda amicizia tra il Papa e Toaff, nel segno del dialogo tra i cattolici e quei fratelli “prediletti” e “maggiori”.

Susanna Lemma

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