Il questore Pignataro: “Mafia e droga, la mia vita in prima linea”

Una vita al servizio dello Stato, sempre in prima linea, in realtà difficili e faccia a faccia con alcuni fra i più cruenti contesti di criminali. Dalla Sicilia della guerra contro la mafia alla Macerata dei nostri giorni, alle prese con la violenza della criminalità nigeriana, il questore di Macerata, Antonio Pignataro, racconta a Interris.it la sua carriera, intrapresa giovanissimo con un obiettivo preciso: “Mettermi a disposizione del bene, anche a costo della vita”. Perché la battaglia contro il male è dura quanto necessaria e confrontarsi con la violenza, la perdita di un collega o le sofferenze di una guerra al servizio del proprio Paese fa parte del dovere di chi sceglie di impegnare tutto se stesso nella tutela dello Stato e dei suoi cittadini.

 

Dott. Pignataro, la sua carriera è costellata di importanti operazioni contro la criminalità organizzata… Cosa l'ha spinta a intraprendere una vita sempre in prima linea come quella in Polizia?
“Io sono entrato in Polizia quando avevo 18 anni, perché avevo un forte senso dello Stato. Secondo me i poliziotti sono coloro che possono aiutare la società, che possono difenderla e tutelarla. E per questo devono mettersi sempre a disposizione del bene, anche a costo di perdere la propria vita. Questo è il pensiero che ho avuto sempre e che mi accompagna tuttora: difendere la società da tutti i mali che la attanagliano. Non dico di voler sconfiggere il male, perché sarebbe impossibile, ma certamente far prevalere il bene. Questa è la mia mission e l’idea alla base del mio desiderio di voler fare il poliziotto. E, ovviamente, ciò che alimenta il mio impegno e la mia gioia nel lavorare, perché il giorno in cui dovessi perdere questa passione, naturalmente andrò via. La mia passione però dura ancora oggi”.

Prima di Macerata ha conosciuto una battaglia estremamente difficile nella Sicilia degli anni Ottanta…
“In Sicilia sono rimasto dall’80 all’88 e sono stato alla Squadra mobile di Palermo nel periodo più difficile. La battaglia contro la mafia era dura e vigorosa, combattuta però al fianco di uomini straordinari come il dottor Cassarà, il dottor Montana, Calogero 'Lillo' Zucchetto, il dottor Francesco Pellegrino… Persone che hanno dato il massimo impegno, alcune delle quali con la vita: Ninni Cassarà e Giuseppe Montana, trucidati dalla mafia, così come gli agenti di Polizia Lillo Zucchetto, Natale Mondo e Roberto Antiochia. Dopo quarant’anni li porto ancora nel cuore: il ricordo è particolarmente forte, tanto è vero che nella provincia di Macerata, con l’aiuto dei sindaci, sono riuscito a far dedicare a loro parchi, viali e piazze, proprio per ricordarne il valore e l’eccezionalità. Loro non hanno combattuto solo per Palermo e la Sicilia, ma per tutta l’Italia. Le indagini successive avrebbero infatti dimostrato che la mafia aveva pervaso tutto il nostro Paese. E questi uomini devono essere sempre ricordati perché un Paese senza memoria è un Paese senza futuro”.

Anni durissimi quelli della lotta alla mafia. All'epoca la cittadinanza aveva percezione di cosa stava avvenendo? Esisteva una coscienza civica sul problema?
“La cittadinanza era assente completamente, indifferente. E l’indifferenza, come detto dal Capo della Polizia Franco Gabrielli, 'è il male peggiore della nostra società'. In quel momento storico l’indifferenza era totale, non avevamo nessuna associazione, nessun uomo che potesse supportare, dare solidarietà o difendere le forze di Polizia. Era una lotta intestina e impari fra noi e la mafia. Non avevamo mezzi, a volte usavamo le nostre macchine e le nostre moto per difendere lo Stato. E nessuno capiva che quella guerra non era rivolta solo alla Sicilia o a Palermo ma a tutta l’Italia perché, come Squadra Mobile, avevamo già capito che la mafia stava pervadendo tutto il territorio nazionale ed europeo”.

Negli anni, di fronte a fatti atroci, qualcosa è cambiato?
“Era una lotta fra noi e la mafia ed eravamo così votati al servire lo Stato che sapevamo già che qualcuno di noi potesse morire, che la campana, come diceva Hemingway, poteva suonare. Accettavamo questo pericolo perché sapevamo di fare una costa giusta, buona e che potevamo far prevalere il bene. Ricordo i miei colleghi che sono morti e solo per circostanze fortuite io non mi sono trovato al posto di qualcuno di loro o insieme a loro. Ecco perché l’impegno e la passione sono al massimo e se posso, fino all’ultimo adito, difenderò lo Stato con gioia e perseveranza”.

A Macerata come arriva?
“Avevo la famiglia a Roma ma volevo andare in una città del Sud, per onorare al meglio i miei colleghi. Avrei voluto andare in una città siciliana per portare tutto il mio impegno ed ero destinato al Sud ma, vista l’emergenza di Macerata, il Capo della Polizia mi ha mandato lì per risolvere quei problemi”.

Nella città marchigiana porta con sé, pur in un contesto diverso, un'esperienza estremamente segnante. Questo le è stato d'aiuto?
“La mia esperienza l’ho portata sempre con me, dando il massimo ovunque sono andato. Alla CriminalPol, nei vari commissariati che ho diretto, ho rilevato numerose situazioni come quella del clan Casamonica nel 2008, quando per la prima volta fu riconosciuta l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Ho dato il mio apporto, facendo il mio dovere da buon servitore dello Stato, e il mio curriculum di fatto, non di parole, è ricco perché penso di aver assolto i miei compiti con disciplina e onore”.

Arriva in una città completamente diversa da Palermo e in anni altrettanto diversi… Quale situazione si è trovato di fronte una volta giunto in città?
“A Macerata c’era una situazione di spaccio a cielo aperto e una popolazione tradita nella sua vocazione di accoglienza e solidarietà. Questa fiducia data dal popolo maceratese è stata tradita completamente perché nessuno poteva pensare che alcune di queste persone da loro accolte agissero già dalla Nigeria come organizzazione criminale vera e propria: la criminalità nigeriana, da come si sa dalle informative della Dia, esiste ed è molto forte anche in Italia. Non si parla giuridicamente di mafia ma di una forte, pericolosa, violenta e crudele criminalità organizzata. Queste persone arrivavano in città già preparate per spacciare. Le nostre norme garantiste purtroppo non ci permettono di trattenere le persone in carcere per più di due giorni e, quindi, venivano qui già con l’idea di spacciare, restare per un anno o due e, quando erano condannati, rientravano in Nigeria per tornare alla vita che avevano sempre condotto. Quindi un’organizzazione che manda le persone come fosse una vera e propria divisione del personale lì dove si può spacciare per poi farle rientrare non appena vengano più volte denunciate o arrestate”.

Quali misure sono state adottate per fronteggiare l'emergenza contro una criminalità così radicata e violenta?
“Ho cominciato a lavorare cercando di capire e analizzare il problema. Dopodiché ci sono stati servizi specifici, iniziando a denunciare e arrestare una moltitudine di nigeriani, a volte gambiani, con eroina, cocaina e marijuana. C’era un vero e proprio emporio della droga in città: pian piano abbiamo debellato lo spazio dai Giardini Diaz, da Ponte Scodella, dalle varie strade di Macerata. Loro, adottando una strategia a quanto pare studiata a tavolino da persone con una certa preparazione criminale, hanno iniziato a spacciare con il metodo delle palline sotto la lingua. Siamo riusciti a contrastare anche questa azione, per poi trovarci davanti a nuove strategie: hanno iniziato a usare donne e uomini che nascondevano droga nell’ano o nella vagina. Anche qui abbiamo lavorato in modo forte e con una buona preparazione professionale, soprattutto grazie ai poliziotti estremamente competenti che ci sono qui a Macerata, riuscendo a debellare questo tipo di spaccio. In seguito i criminali hanno provato ad attivare uno spaccio da fuori città: abbiamo fatto dei blocchi stradali, controllato la stazione ferroviaria, i terminal dei bus e abbiamo denunciato e arrestato persone. In ultimo, hanno iniziato a usare un metodo molto pericoloso, ingoiando le palline di droga e defecando nelle abitazioni dei vari assuntori. Qui abbiamo agito in modo previdente, prendendo alcuni corrieri che, fino a quel momento, sapevamo partisse dalla Nigeria ma non dalle regioni limitrofe. Abbiamo individuato il sistema di spaccio, constatando che per la criminalità nigeriana la vita non ha nessun valore”.

Ora com'è la situazione a Macerata?
“Abbiamo debellato l’organizzazione criminale nigeriana. Non c’è uno spaccio come prima: i bambini e le loro famiglie sono tornati ai Giardini Diaz, le strade maceratesi sono tornate più libere e sicure. Noi non abbiamo l’arroganza di sconfiggere il male, perché purtroppo fa parte dell’uomo. Ma certamente dobbiamo contrastarlo e far prevalere il bene. Io mi sono esposto con grande chiarezza perché un servitore dello Stato deve farlo per difendere e tutelare la società. Anche sulla cannabis light ho condotto una battaglia, cercando di dare uno stimolo a tutti”.

Di recente, la città ha conosciuto eventi drammatici, come la morte di Pamela Mastropietro e il successivo raid di Traini… Ritiene che anche prima di questi eventi vi fosse una coscienza civica sul dramma vissuto da Macerata?
“A Macerata la coscienza del problema prima di Traini non c’era perché il popolo marchigiano è buono, operoso e laborioso e nutriva fiducia. Se abbiamo vinto questa guerra, però, il merito va alle Forze di Polizia, alla Magistratura ma anche ai sindaci e alla società civile che ci è stata vicino, ha collaborato. Un plauso perché il popolo delle Marche è un esempio per tutta l’Italia, per impegno, operosità, solidarietà e collaborazione con le forze sane del Paese”.

Le esperienze della sua carriera le ha vissute con il supporto della fede?
“Posso dire che se non fossi stato credente non sarei qui. Penso che bisogna credere in qualcosa, per affrontare le delusioni e le amarezze che possono esserci nella carriera e nella vita”.