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Una giustizia classista

Difficile far capire a uno straniero il funzionamento del sistema giudiziario italiano. Complicato spiegare come sia potuto accadere che due ragazzi, a questo punto secondo la giustizia italiana del tutto innocenti, Amanda e Raffaele, possano essere rimasti per otto anni sotto processo. Parliamo del delitto di Perugia, la morte per mano di più assassini, alcuni dei quali tuttora sconosciuti, di Meredith Kercher. Cinque gradi di giudizio non sono bastati per capire chi abbia ucciso la ragazza insieme all’unico colpevole accertato, l’ivoriano Rudy Guede. Di certo a questo punto c’è solo un dato, quello fissato dalla Cassazione nei giorni scorsi: Amanda e Raffaele sono del tutto estranei al delitto. Ma è proprio il combinato disposto delle sentenze che si sono susseguite in tutti questi anni a rendere evidente la sconfitta della giustizia. Secondo i giudici, è certo che Rudy non abbia agito da solo, ma con chi non è dato sapere. Sarebbe sbagliato tuttavia attribuire la responsabilità del fallimento al solo sistema giudiziario.

Anche la fase investigativa ha avuto le sue colpe; parliamo ad esempio del fatto che troppo ci si è affidati alle indagini scientifiche, che evidentemente hanno dimostrato di non riuscire sempre a tirar fuori un colpevole, specie se i rilievi vengono effettuati in maniera approssimativa. C’è però anche un altro dato che fa riflettere. L’accanimento di certe procure nei confronti di questo o quel sospettato, di questo o quell’imputato, che nel caso del processo di Perugia ha portato al seguente risultato: chi aveva meno mezzi per difendersi, è il caso di Guede, è stato condannato. Chi invece ha potuto affrontare questi lunghi anni di processo, sborsando centinaia di migliaia di euro per avvocati e periti, alla fine è riuscito a dimostrare la propria innocenza. Una giustizia “classista” che mette davvero i brividi.

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