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Pechino e la pena di morte. Riconosciuta l’innocenza di un giovane giustiziato 19 anni fa

I fatti di cronaca con cui ogni giorno dobbiamo fare i conti hanno riaperto la discussione sulla pena di morte e se essa possa risultare utile per scoraggiare la commissione di crimini efferati. Ma pochi di quelli che si arrogano il diritto di scegliere sulla vita altrui tengono conto di quanto questa misura sia rischiosa, oltre che immorale. Ce lo dimostra quanto accaduto in Cina dove un serial killer ha confessato di essere l’esecutore di diversi omicidi, stupri e rapimenti per i quali, 19 anni fa, era stato giustiziato un adolescente innocente. Zhao Zhihong, questo è il nome del 42enne reo confesso, è stato a sua volta condannato al massimo supplizio.

L’errore umano fa parte della giustizia e di chi la amministra. Ma in uno Stato che preveda la pena di morte (e la tortura come sistema di interrogatorio), anche una piccola svista può risultare fatale. Nessuno potrà dunque resuscitare Hugjiltu, il 18enne finito tra le mani del boia per delitti che non aveva commesso. Convinta della sua estraneità ai fatti, la sua famiglia del ragazzo si è battuta per anni per la sua innocenza e alla fine, nel dicembre scorso, è riuscita a ottenere la sua riabilitazione postuma. La penosa vicenda mette in luce le clamorose defaillance del sistema giudiziario cinese, una giustizia molto rapida e direttamente controllata dal regime comunista che spesso stritola nei suoi meccanismi anche persone innocenti: secondo dati ufficiali, nel 2013, il 99 per cento delle persone imputate in processi penali sono state condannate.

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