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La maternità surrogata

Con la maternità surrogata una donna è disposta a partorire un bambino in sostituzione di un’altra donna. Nel nostro ordinamento tale pratica è espressamente vietata dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004. La legge italiana però non dispone nulla in ordine a alla liceità o meno della surrogazione di maternità attuata all’estero da cittadini italiani e, nella prassi giudiziaria, è sorto il problema del riconoscimento nel nostro Paese di certificati che attestano la maternità o la paternità di figli nati con surrogazione in Stati dove tale pratica è consentita.

Il dibattito ha recentemente subito un arresto a seguito della sentenza n. 24001 del 2014, con la quale la Suprema Corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte di appello, ha dichiarato lo stato di adottabilità di un minore, nato in Ucraina, generato con la pratica di surrogazione di maternità, conformemente alla legge ucraina che la consente, allontanandolo dalla coppia di coniugi che lo aveva accudito fin dal momento della sua nascita. A questo punto è doveroso riflettere sulle gravi conseguenze che un minore, nato lecitamente all’estero con la pratica di surrogazione, è costretto a subire nel nostro Paese.

Ad oggi, i genitori che ricorrono a metodi di fecondazione diversi da quelli consentiti e disciplinati dalla legge nazionale vedono disconoscersi il proprio rapporto familiare, non potendo formalmente dichiarare le circostanze in cui è nato il proprio figlio (o quello che ritengono tale), non essendo rinvenibile nell’ordinamento alcuna legislazione destinata a disciplinare simili attestazioni. Il bambino generato ricorrendo a surrogazione di maternità è soggetto ad uno stato di assoluta incertezza giuridica, in quanto l’ordinamento non riconosce la sua identità all’interno della società, e lo priva delle figure genitoriali di riferimento. L’allontanamento dalla famiglia committente crea danni alla psiche irreversibili, mentre, invece, potrebbe corrispondere al suo interesse continuare ad essere allevato da quelli che ha identificato come propri genitori, che si sono determinati ad assicurargli un equilibrato ed armonico sviluppo, con i quali ha stabilito un rapporto d’amore e di biunivoca affezione.

E’, infatti, assurdo pensare che il sistema consenta l’allontanamento del minore dal nucleo familiare di appartenenza, esponendolo ad una distonia identitaria del tutto inconciliabile con la tutela della dignità umana. Le determinazioni in tal senso rappresentano una chiara violazione del principio del perseguimento del superiore interesse del minore, “principio” che sottende l’intero panorama legislativo e criterio di valutazione in ogni decisione che riguarda l’infanzia e l’adolescenza.
Appare a questo punto indispensabile un intervento legislativo che regolamenti la condizione giuridica dei figli generati con la pratica di surrogazione di maternità. Il diritto a crescere con i genitori che lo hanno cercato, desiderato, che si sono assunti intenzionalmente e consapevolmente il compito dell’educazione, della cura e dell’accudimento, deve essere garantito, anche in ragione della portata dell’art. 30 della Costituzione, norma circoscritta alle relazioni fra genitori e figli e all’assolvimento in via solo sussidiaria della cura dei minori da parte delle istituzioni.

Il combinato disposto degli artt. 2 e 30 della Costituzione, come interpretato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 11 del 10.2.1981), indica come valore primario da perseguire la promozione della personalità del soggetto umano in formazione e la sua educazione nel luogo a ciò più idoneo, la famiglia d’origine e, soltanto in caso di incapacità di quest’ultima, in una famiglia sostitutiva. Questi valori sono ormai patrimonio culturale dell’Unione e devono rappresentare per il giudice italiano strumenti di riduzione del conflitto fra norme che invecchiano ed una realtà in continuo cambiamento.

Autore Ospite

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