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IL POPOLO DEI LICENZIATI

Il sole a Roma splende da poco più di un’ora. Le luci al neon illuminano appena i corridoi della stazione Ostiense e tra l’odore di chiuso e quello del caffè, fa eco sui muri il vociare di questa grande corsa collettiva. Sul fondo dell’androne centrale c’è una figura che non si muove: è un uomo dal volto pulito e i suoi occhi sembrano ostentare un’espressione completamente indifferente.

“Italiano, 61 anni. Non vorrei più dormire in strada”, c’è scritto sul cartoncino che tiene tra le mani. Non ha un lavoro né una pensione, ma ha versato contributi per ben trentott’anni e ad oggi, spiega, è costretto a passare le proprie giornate sui marciapiedi, in compagnia di un vecchio materasso.

“Ho iniziato a lavorare presto – racconta – avevo diciannove anni. Facevo il tecnico in un centro di elaborazione dati. Iniziai a Como e dopo qualche anno mi trasferirono a Roma, dove divenni dirigente”. Una vita dentro un’azienda, il cambio generazionale. E le cose per lui sono progressivamente cambiate: le tecnologie hanno iniziato ad evolversi e dai grandi elaboratori dati si è passati ai mainframe e infine ai Pc. “Ero considerato vecchio. E quando l’azienda ha cominciato a dover fare una cernita di ‘pezzi’, io sono rientrato tra quelli da gettare via: i più giovani sono stati ricollocati e per me, con cinquantanove anni sulle spalle e ancora quattro davanti per poter accedere a una pensione, era rimasta solo l’opzione ‘disoccupato “.

Disoccupato, sì. Perché un cinquantanovenne non può che applicarsi nell’inviare curriculum e attendere che qualcuno lo chiami, per poi liquidarlo: “Ne ho mandati 700: cinquecento solo su internet e duecento cartacei. Mi hanno chiamato solo due volte, domandandomi se fossi pensionato per potermi assumere. Ma la legge Fornero non mi permette di accedere ai fondi pensionistici e i contributi che ho versato, al momento, non servono a nulla. Proprio come la mia età”.

E non gli è stato utile neanche il Tfr, perché i soldi per il pagamento del mutuo a un certo punto hanno iniziato a esaurirsi. “E’ iniziato, per me, un decadimento fisico, psicologico e morale: la casa mi è stata pignorata e le mie figlie hanno iniziato a non rivolgermi più la parola”. Vorrebbe andare avanti, ricominciare. Ma a 61 anni suonati e un’intera esistenza trascorsa nel mondo di una sola professione diventa una prospettiva ogni giorno più lontana. Quindi non gli resta che farsi coraggio, armarsi di dignità ed offrire ogni mattina uno schiaffo di amara verità a tutti quelli che vanno ancora a lavorare.

In Italia, coloro che non possiedono un impiego sono più di tre milioni. E se i giovani disoccupati ammontano a 710 mila, quelli come lui sono diventati un milione e mezzo: ex lavoratori over 40 che crisi, mobbing e incentivi all’esodo hanno espulso dal processo produttivo facendoli rimanere senza né stipendio né pensione, perché troppo lontana. Gli “esuberati” soffrono la completa assenza di entrate mensili e un’età anagrafica malvista per trovare lavoro. E se l’oltre 40% dei disoccupati under 30 può essere considerato figlio di questa grande recessione, gli uomini e le donne come il protagonista della nostra storia, di questa crisi, rappresentano l’esatta personificazione.

A tutta questa generazione di senza diritti non servono né il jobs act, né la riforma dell’articolo 18. La loro umiliazione rappresenta il fallimento del sistema Paese, che non dà lavoro ai ragazzi né lo offre a chi lo perde. Sono i nuovi poveri, tanti e invisibili; e la politica non si cura di loro. Anche se basterebbe solo gettare distrattamente un occhio al di là dei finestrini lucidi delle auto blu per accorgersene.

 

Giulia Capozzi

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