COME LE MAFIE FANNO SOLDI CON LO STATO

Non esistono più i “mafiosi” com’erano negli Anni 50, descritti anche dalla cinematografia con scoppola, bretelle e lupara. Oggi è diventato improprio persino parlare di “mafia”, al singolare: non solo perché camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita ecc. hanno preso spazio nel panorama malavitoso italiano, ma perché la globalizzazione ha prodotto i suoi frutti anche nel mondo del crimine. La delinquenza si sposta là dove ci sono soldi, migra nei centri di interesse nei quali è possibile reperire grandi quantità di denaro. Lì operano le mafie, dove non serve sparare perché non ci sono banche da rapinare, ma codici da sfruttare sia nel senso di password, quando si parla di crimini informartici, sia nell’accezione di leggi, quando si tratta di usufruire indebitamente di fondi europei.

È il caso dei 388 milioni di euro di finanziamenti illeciti assegnati dall’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (Agea) ad agricoltori sprovvisti dei requisiti stabiliti dalla legge nel 2014. Secondo la relazione annuale della Commissione europea sulla tutela degli interessi finanziari dell’Unione emerge che nel 2013 l’Italia è in testa per quanto riguarda le irregolarità legate ai fondi Ue. Sono stati registrati ben 302 casi di truffa o tentata truffa. Dopo di noi, molto distaccate, Bulgaria, Polonia e Danimarca. Uno schiaffo ai contribuenti onesti.

L’ultimo episodio scoperchiato (e condannato) dalla Corte dei Conti arriva al paradosso: un’azienda ormai in dissesto viene commissariata dallo Stato, che invia un curatore fallimentare per gestire il periodo e provare a verificare le possibilità di rilancio in modo da tutelare la forza lavoro.

La vicenda risale a qualche anno fa, ma tra indagini delle forze dell’ordine, ricorsi, controricorsi e pronunciamenti dei giudici si è arrivati a definire la questione solamente a giugno 2015 (sentenza 114/2015 della Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale della Calabria). Si parla dunque in lire all’inizio della vertenza, e in euro alla sua conclusione (ma quello della lentezza della giustizia è un altro argomento…)

Fatto sta che il curatore fallimentare ha presentato un programma di investimenti per complessivi 4 miliardi di lire, su un finanziamento concesso addirittura nel 2007. Peccato però che quei soldi non siano stati tutti spesi per ciò che erano stati erogati. Con un artificio contabile, la cifra non è stata versata sul conto dell’azienda in fallimento ma direttamente su quello dell’ex proprietario. Sul conto corrente aziendale infatti – scrivono i giudici – non si trovano riscontri “in attività di acquisto di beni e servizi da parte dell’imprenditore per far fronte agli obblighi contrattuali assunti col Mise (Ministero dello sviluppo economico). Inerenti le attività lautamente finanziate”. Insomma, quei soldi chissà dove sono finiti. Tanto che i giudici – sempre in sentenza – parlano anche di “prelievi per contante, che in un caso hanno raggiunto la cifra di oltre un miliardo di lire”. Alla faccia del bancomat…

In altri termini emerge chiaramente e inequivocabilmente un disegno doloso di utilizzazione per finalità personali di fondi pubblici che erano stati destinati alla promozione di un’attività imprenditoriale.
Ecco come lo Stato – suo malgrado – finanzia i malfattori, piccoli o grandi che siano, semplici furbetti o apparati della criminalità organizzata. E per fortuna che qualche volta vincono i buoni.
In questo caso la truffa è stata scoperta, l’imprenditore e il curatore fallimentare infedele sono stati condannati: dovranno risarcire al Mise 1.242.533 euro. Sempre che nel frattempo non siano spariti chissà dove…