Per la prima volta da quando fu adottata la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio nel 1948 (entrata in vigore il 12 gennaio 1951), 50 anni dopo, il 2 settembre 1998, il Tribunale penale internazionale per il Ruanda delle Nazioni Unite decise di applicarla nella sentenza di condanna di Jean-Paul Akayesu, sindaco di Taba, un paesino dello Stato africano in cui si è consumata una delle più terribili tragedie umanitarie della storia.
In 100 giorni, tra aprile e luglio 1994, la popolazione fu massacrata, con machete panchas e bastoni chiodati, senza pietà neppure per i neonati, perfino cucinati sotto gli occhi delle madri e dati in pasto alle genitrici. Un orrore, perpetrato in particolare per lo sterminio della comunità dei Tutsi, purtroppo, non inferiore all’Olocausto degli ebrei durante la Seconda Guerra mondiale, eppure accaduto soltanto poco più di venti anni fa, allora nel silenzio quasi assoluto e colpevole dei media.
Quasi un milione di persone furono sterminate, oltre un terzo della popolazione, in quello che fu appunto un genocidio, cioè, la “commissione di atti con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
Appartenente alla maggioranza Hutu, Akayesu, allora a capo delle forze dell’ordine e di sicurezza in quanto sindaco, diede l’ordine di “stanare” casa per casa i Tutsi per torturarli e ucciderli.
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