IL SOGNO AUSTRALIANO E L’AMARA REALTA’

El Dorado, una città interamente fatta d’oro, verso cui avventurieri di ogni nazione si imbarcavano, alla ricerca di soldi, emozioni, condizioni di vita migliori. Un sogno, quello della terra promessa, che ha attraversato i secoli: dalle migrazioni verso gli Usa a quelle per l’Argentina, passando per i grandi flussi che, nel ‘900, attraversarono l’Europa da Nord a Sud. Oggi, con la crisi economica e sociale in Occidente, l’attenzione di tanti giovani, soprattutto italiani, si è spostata all’altro capo del mondo, in Australia.

Un Paese tutto su un’isola, paesaggi meravigliosi, mare incantevole, surf, divertimento, cosmopolitismo. Intorno meravigliosi atolli caraibici, nell’entroterra panorami incantati, tanto da diventare il palcoscenico di numerosi blockbuster. Ma non solo: in Australia c’è lavoro. Al momento, circa 15.000 ragazzi sono volati alla volta di Sidney, e attualmente si trovano nel Paese con un visto temporaneo “work holiday”, ovvero “vacanza lavoro”, della durata di un anno. Tutti devono avere meno di 31 anni; qualcuno ha una laurea in tasca, tanti sogni in testa, e la consapevolezza che là potrà trovare meno concorrenza. Ma, come spesso capita, non è tutto oro quel che luccica e in molti, partiti con l’idea di trovare il paradiso, finiscono nell’inferno della precarietà. Come Tiziana, italiana, che oggi fa la commessa a Sidney. Ci racconta che per entrare in Australia anche lei ha dovuto prendere il “working holiday visa”, un permesso di un anno, rinnovabile solo a patto che, a scadenza, si sia trovato un impiego. “Per fare soldi non ci si mette niente – racconta a Interris -. Puoi fare anche 3-4 lavori contemporaneamente, perché puoi gestirti il tempo come vuoi”, ed è facile trovare occupazioni poco impegnative. “E’ altrettanto semplice però spendere tutto ciò che guadagni, i prezzi sono parecchio alti”. I giovani immigrati che hanno quel tipo di visto non possono avere contratti che durino più di 6 mesi, quindi “non puoi dare importanza a un lavoro del genere”.

Il primo anno  passa in fretta, e quindi, praticamente tutti, si trovano davanti a una fatidica domanda: rimango o torno a casa? Per restare è obbligatorio passare per i famosi 88 giorni di “farm”, ovvero fare il contadino nelle piantagioni. Si può optare tra due modalità. La prima è il “buffing”, cioè il lavoro gratuito in cambio di vitto e alloggio. La seconda consiste nel percepire uno stipendio, rinunciando, però, alle agevolazioni. Nel “buffing” la giornata lavorativa dovrebbe durare al massimo 3-4 ore, anche se “sono in molti che ti tengono nei campi anche 8-9 ore, perché sanno che non puoi fare altrimenti”. Nel primo caso, ai fini del calcolo, si conteggiano anche i festivi e i weekend. Nell’altro, invece, si tiene conto solo dei giorni in cui si è lavorato.

Scegliere la seconda modalità d’impiego rende le cose più difficili, soprattutto se la stagione è stata brutta e c’è minore necessità di braccianti. Esistono però dei “working hostel” in cui paghi poco e il proprietario ha dei contatti con le farm, per cui ti “manda a lavorare”. Qua la fortuna gioca un ruolo fondamentale. “Parti dal presupposto che se ti possono sfruttare ti sfruttano” dice Tiziana. “Ci sono certi ostelli che sono fatiscenti…altri più nuovi che non sono affatto male”. I gestori possono essere persone più o meno piacevoli, “alcuni sono proprio schiavisti, altri un po’ più carini, poi dipende se gli sei simpatico o no, bisogna saperci fare!”. La vita nei campi è pesante, “il primo dove sono stato era tremendo, lavoravo 10 ore. Avevo solo mezzora di pausa pranzo che dovevo fare in bagno perché non c’erano altri posti”. Uno schiaffo alla dignità. Tiziana decide allora di cambiare e trova una sistemazione migliore. Coglie peperoni per 9 ore al giorno, ma i padroni le portano il caffè, il the e riservano ai ragazzi un’area nella quale trascorrere i pochi minuti di break concessi. Tutto sommato accettabile. Nel fine settimana, poi, la vita in ostello si accende. Gli ospiti si riuniscono e festeggiano insieme. Un modo per dimenticare le fatiche e sentire meno nostalgia di casa. “Vivere in un gruppo con tante persone è un’esperienza fantastica” aggiunge Tiziana. Questo aiuta chi è più forte a stringere i denti. Gli altri alzano bandiera bianca e se ne vanno, rinunciando al sogno australiano.

Dopo le farm bisogna aguzzare l’ingegno e trovare un altro impiego, in caso contrario c’è l’obbligo di lasciare il Paese. Perché in Australia non conta che tu sia arrivato in aereo con il trolley o su un barcone con quattro stracci e la valigia di cartone. Sempre un immigrato rimani. E come tale devi comportarti, cercando di essere produttivo. Tutto viene schedato, controllato nei minimi dettagli. Bisogna essere disposti a adattarsi, persino sfruttati, a fare qualsiasi tipo di lavoro, per riuscire, un giorno, a raggiungere la propria dimensione. Sapendo che, nel momento in cui si diventerà un peso per la società, ci sarà sempre qualcuno pronto a indicarti la porta.