NUOVI SCHIAVI, COSA PUO’ FARE LA CHIESA

Abbattere i luoghi comuni, colpire la domanda, costringere i governi ad un’azione comune e coordinata, distinguere tra clandestini e schiavizzati. In attesa di definire il documento finale, che sarà reso pubblico solo tra qualche giorno, la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali riunita in Commissione plenaria ha affrontato il tema dei traffici di uomini andando “oltre” la criminalizzazione, come ha sottolineato la prof.ssa Margaret Archer, presidente della Pontificia Accademia. “Vogliamo – ha annunciato la Archer – arrivare a inserire l’eliminazione o almeno la riduzione del traffico delle persone e quel che ne consegue (lavoro forzato, prostituzione, traffico di organi, schiavitù domestica) tra gli obiettivi del millennio per i prossimi 15 anni. Se riusciremo o no questo non lo sappiamo, ma “ne parleremo anche con il segretario dell’Onu, il prossimo 28 aprile, quando sarà qui in Vaticano”. Il problema non è dunque solo quello di colpire le organizzazioni criminali, ma di cambiare la cultura di una società che troppo spesso si autoassolve, guardando il problema da lontano.

E’ ciò che il professor Pierpaolo Donati ha definito la “solidarietà ironica”, quella intrisa di pietà e fatalismo, senza alcuna connotazione operativa o identificazione empatica. In questo contesto c’è bisogno di una scossa, come ad esempio boicottare le merci prodotte da Paesi (o aziende) che tollerano l’utilizzo di manodopera schiavizzata, se non addirittura la incentivano.

Torna dunque l’approccio culturale della questione, che dovrebbe essere utilizzato anche per eliminare la confusione tra immigrato illegale e persona schiavizzata; i due termini infatti vengono spesso utilizzati come sinonimi, commettendo una grave errore di valutazione che porta anche ad azioni sbagliate. Una cosa infatti è il rimpatrio coatto per il primo caso, altro è imporlo a chi sta fuggendo da situazioni di guerra, torture e persecuzioni. E’ del tutto evidente che andrebbe recuperata la distinzione – definita a Ginevra nel 1948 – tra migranti, lavoratori e richiedenti asilo; parliamo di recupero perché quei principi, così chiari nell’immediato dopoguerra, si sono via via annacquati, fini a far perdere d’identità le tre figure.

L’ultimo rapporto dell’Onu ha evidenziato come il 70% delle persone vittime di tratta sono donne o bambine, mentre il 72% dei trafficanti sia invece di sesso maschile. Al di là delle considerazioni di genere, ciò che va sottolineato – ha spiegato il prof. Stefano Zamagni – è che non è solo la prostituzione il terminale delle vicende di questi rapimenti. In parte vanno ad alimentare il terribile mercato del traffico di organi, ma la maggior parte diventa manovalanza per i lavori forzati, complici imprenditori che fanno colpevolmente finta di non sapere la provenienza di quella mano d’opera a bassissimo costo.

Altro equivoco culturale da dissipare, la confusione tra libertà di scelta e libertà di poter scegliere. Nel primo caso ci si può incamminare in una strada predeterminata tra una rosa di possibilità, nel secondo si autodetermina invece il percorso che si vuole fare. Una differenza abissale, come stare dentro o fuori un recinto, eppure così male interpretata da ciò che possiamo definire “individualismo libertario”.

Poi c’è l’inerzia dei governi. Il cosiddetto Protocollo di Palermo (che, tra le altre cose, impegnava contro il traffico di migranti via terra, mare e aria”) fu approvato dal 90% delle Nazioni nel mondo, ma nessuno lo ha ratificato, cioè lo ha reso operativo. Finché i Paesi non passeranno dalle dichiarazioni d’intenti all’azione, il problema è destinato a rimanere tale.

Dunque cosa fare? E qual è la novità di oggi rispetto alle posizioni già espresse molti anni fa da don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII (che con il suo Responsabile generale, Giovanni Ramonda, ha partecipato attivamente ai lavori della Commissione), proprio a proposito delle donne schiavizzate e della necessità di colpire la domanda? “La differenza – ha spiegato ancora il prof. Zamagni – consiste nel fatto che nel frattempo il mondo si è globalizzato, e dunque è possibile anche una globalizzazione della solidarietà (“mettendo in rete le diverse associazioni che si muovono su questo terreno”, ha aggiunto il prof. Donati); se una volta esisteva solo una domanda individuale – quella della prostituzione per intenderci – oggi ne esiste anche una collettiva, aziendale, ed è in crescita. Su questa si può intervenire alla radice, valorizzando il concetto di responsabilità sociale d’impresa che non può voler dire solo fare beneficenza”.

E la Chiesa cosa può fare in tutto questo? “Oltre ai richiami costanti e profondi di Papa Francesco – hanno spiegato i relatori – può incoraggiare azioni virtuose sia tramite i consacrati sia con le organizzazioni ad essa collegate. Si pensi per esempio all’informazione sulla donazione di organi per una scelta ampia e consapevole, oppure al contatto diretto con i clienti delle prostitute, per iniziare dal basso un’azione di persuasione culturale e presa di coscienza. Spezzare la catena dell’offerta lo si può fare eliminando la domanda. In ogni campo in cui la schiavitù è presente.