«Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» «Quicumque fecĕrit voluntātem Patris mei, qui in caelis est, ipse meus frater et soror et mater est»
In quel tempo, mentre Gesù parlava ancora alla folla, ecco, sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti». Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre».
I primi tre versetti del Vangelo di oggi vedono la ripetizione quasi ossessiva del verbo «parlare»: Gesù parla alla folla; i suoi parenti lo cercano per parlargli; un tale dice a Gesù che i suoi gli vogliono parlare; Gesù infine risponde a chi gli parla. In effetti, parlare è attività squisitamente umana. Il tema del brano però è un altro: i parenti di Gesù. Chi sono i suoi familiari? Anche questa è una caratteristica tipicamente umana: il cuore degli uomini infatti è assetato di unità, di comunione, di legami parentali appunto; vuole sentirsi a casa. La religione è anche solo questo: diventare familiari di Dio (Ef 2,19). Ma come è possibile arrivare a tanto? Del resto, ancora prima: com’è possibile raggiungere un risultato simile anche solo tra noi uomini?
Essere credenti significa senz’altro pregare, e pregare è parlare con Dio e a Dio: il verbo latino orāre vuol dire proprio muovere le labbra, parlare. Ma ecco che Gesù dichiara apertamente che suoi parenti non sono coloro che parlano con lui. Eppure parlare − dicevamo − è attività eminentemente umana: è esprimere sé stessi; affermazione e manifestazione di sé, della propria volontà; in fondo, è anche un donarsi: ogni dirsi è un darsi.
Ora, in latino, parlare si dice loquor, verbo deponente, ovvero con desinenza passiva ma significato attivo. È sapiente: per imparare a parlare, infatti, è necessario, per così dire, essere parlati, ossia ricevere una parola, che qualcuno (la madre, i familiari) ci parli. Più in generale, l’uomo è natura deponente: tutto ciò che egli sa fare, è perché l’ha ricevuto ed imparato da altri. Certo, poi è capace di rielaborazione personale, di originali alchimie; ciò nondimeno, tutto quel che siamo è a partire da un aver ricevuto: non per niente siamo creature! Questo dunque vale anche per il parlare: esso è reso possibile da un originario ascolto.
Ecco: è l’ascolto che ci fa diventare parenti di Gesù. Se ascoltiamo lui, poi possiamo parlargli. Se invece gli parliamo senza averlo prima ascoltato, in verità non arriviamo a stare in contatto con lui, ma solo con noi stessi. Ascoltare infatti è esattamente questo: accogliere l’altro dentro di sé, lasciarsi toccare, ferire. Come dice Gesù, è fare la volontà di Dio: fare in modo cioè che la sua parola plasmi le nostre parole e la nostra volontà. Allora diventeremo fratelli e sorelle sue: suoi parenti. Ancora di più, diventeremo sua madre: non solo lo porteremo dentro di noi, nel nostro grembo, una cosa sola con lui (Gv 17,21), una sola carne, ma addirittura lo genereremo al mondo, lo manifesteremo, rendendo altri suoi discepoli (1 Gv 1,3).
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