Opinione

La lezione delle giovani Chiese

Il presidente americano Jimmy Carter, ricevendo Karol Wojtyla alla Casa Bianca nel 1979, gli si rivolse in termini schietti: «Lei ci ha costretti a riesaminare noi stessi. Ci ha ricordato il valore della vita umana e che la forza spirituale è la risorsa più vitale delle persone e delle nazioni». E aggiunse: «L’aver cura degli altri ci rende più forti e ci dà coraggio, mentre la cieca corsa dietro fini egoistici – avere di più anziché essere di più – ci lascia vuoti, pessimisti, solitari, timorosi». Il New York Times scrisse: «Quest’uomo ha un potere carismatico sconosciuto a tutti gli altri capi del mondo. È come se Cristo  fosse tornato fra noi».

Era il più bell’elogio che si potesse fare del successore di Pietro. Quando Giovanni Paolo II parlava ai “favelados” di Rio de Janeiro, ai lebbrosi di Marituba in Amazzonia, agli indios di Oaxaca in Messico o ai pescatori di Baguio nelle Filippine; quando condannava con forza ogni violazione dei diritti dell’uomo davanti a dittatori come Marcos (Filippine), Pinochet (Cile), Stroessner (Paraguay), Mobutu (Zaire); quando parlava del valore della cultura africana (in Benin) e dello «sviluppo dal volto umano» (in Gabon), egli incideva fortemente nelle coscienze dei popoli, non solo in quelli che lo ascoltavano e vedevano in quel momento.

«I contenuti dei suoi discorsi e dei suoi gesti vanno visti ben al di là di quel che può dare una fuggevole immagine televisiva o il titolo a sensazione di un giornale – evidenziò il missionario padre Piero Gheddo –. Quante volte un popolo sofferente e umiliato (penso alla Guinea Equatoriale spagnola, appena uscita dalla spaventosa dittatura di Macías Nguema o al Burundi emerso dalle sanguinose lotte tribali) che hanno ricevuto dalla visita del Papa il provvidenziale stimolo a riprendere con coraggio la via della riconciliazione e della ricostruzione». E’ rilevante il fatto che il Papa, visitando le giovani Chiese in Asia e Africa, avesse il coraggio di porre dei gesti che rischiavano di venire mal interpretati, ma erano profetici rispetto a quella Chiesa.

Ad esempio, la lunga visita in India (1-10 febbraio 1986) e l’insistenza sul dialogo interreligioso con indù e buddisti, mettendo però ben in risalto che il dialogo (non religioso, ma per promuovere l’uomo e i suoi diritti) non sostituisce l’annunzio. In questo era stato criticato nel gregge e anche nella stampa cattolici. Un vescovo indiano dell’Andhra Pradesh disse a padre Gheddo: «Il Papa non capisce la nostra situazione in India, dove i partiti indù e nazionalisti sono anzitutto anti-cristiani e spesso noi cristiani siamo perseguitati».

Ma il Papa, come il Buon Pastore, apriva il cammino e andava per la sua strada. In particolare in Asia, Giovanni Paolo II ha dato della fede in Cristo un’immagine molto positiva in senso umano, di difesa dell’uomo, della giustizia e della pace. In passato le missioni erano spesso accusate di essere collegate col colonialismo e di essere espressione della civiltà occidentale. Karol Wojtyla, che ha appassionatamente difeso “le radici cristiane dell’Europa”, ha anche rifiutato l’identificazione del cristianesimo con l’Europa e l’Occidente. Nelle due guerre in Iraq, ad esempio, che in Asia hanno avuto un’eco negativa enorme, il Papa ha parlato forte e chiaro contro quegli interventi militari ed è apparso a tutti che non ha “sposato” la causa dell’Occidente.

Gianfranco Svidercoschi

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