Attualmente, alle istituzioni sanitarie e sociali, per essere più vicine alle persone con disabilità e malattia rara, manca una vera integrazione. C’è una netta differenziazione tra servizi sanitari, sociosanitari e socioassistenziali e, a maggior ragione quelli territoriali. Negli anni, la condizione di disabilità, si è progressivamente medicalizzata. Ha gradualmente preso spazio la concezione secondo la quale, tutte le fragilità, siano un qualcosa di medico o sanitario da curare con qualche tipo di terapia o farmaco invece, molto spesso, è il contrario e c’è bisogno di più azioni sotto il profilo sociale, di sostegno e di sollievo. Quindi, alle istituzioni, è venuta meno sia la parte concernente le risorse economiche ed umane, ovvero formazione e professionalità. Il secondo aspetto riguarda invece la mancanza di competenza, da parte delle istituzioni, sotto questi punti di vista, a causa della loro poca propensione all’ascolto di chi vive quotidianamente la disabilità e la non autosufficienza. Ciò fa sì che, molto spesso, vengano varati dei provvedimenti scarsamente rispondenti ai bisogni reali.
Vorrei che, il rapporto con le istituzioni sanitarie e sociali, mutasse secondo quanto scritto nella Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità la quale, ormai, ha 15 anni. In quest’ultima è scritto molto chiaramente che, la persona e i suoi bisogni, devono essere messi al centro di ogni azione. Ciò deve essere fatto dalle istituzioni ai diversi livelli. Ciascun Progetto di Vita, ad esempio, deve essere partecipato dalla persona direttamente interessata e dai familiari caregiver. Così facendo si possono ottenere due risultati: i provvedimenti varati saranno più rispondenti ai bisogni, ovvero perfettamente calzanti alle persone, come un vestito su misura. Il secondo aspetto invece, concerne il rapporto di fiducia tra istituzioni e famiglie, il quale deve essere recuperato attraverso l’ascolto degli interessi e dei desideri delle persone con disabilità, cercando di esaudirli.
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