Opinione

Dialogo interreligioso: un aspetto fondamentale per la società

A volte mi domando quale sia il pensiero che caratterizza la nostra società, quale sia la visione che l’uomo di oggi ha e dà di sé stesso, in quale idea l’uomo trovi un comune denominatore. Mi rendo conto che, purtroppo, è ormai impossibile trovare un denominatore comune. Si dice, infatti, che la nostra società sia caratterizzata dal relativismo: nulla ha valore in sé, nulla è in grado di dare una ragione alle nostre vite.

Venuta meno la fiducia nelle tre agenzie educative tradizionali (famiglia, scuola, Chiesa), i valori da esse trasmessi sono stati posti a processo e spesso condannati senza appello. Può il relativismo condurre l’umanità al bene, ossia a qualcosa che è percepito come bello, positivo, costruttivo, capace di generare altro bene, inteso secondo il dettame della legge naturale, inscritta nel cuore dell’uomo? Evidentemente no. L’uomo nasce con una tensione verso il bene: certo, come donna di fede, credo che questa legge naturale sia “la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio nella creazione, nei Dieci Comandamenti e in Cristo, nuovo Mosè” come scrisse San Giovanni Paolo II nella Redemptor hominis, l’enciclica inaugurale del suo pontificato.

Il dono della fede, ricordiamo che la fede è un dono, mi porta a credere che c’è un bene in ordine al quale tutto assume un valore preciso. Ancora: la fede è un dono di Dio ma è anche un atto libero e umano. Il Catechismo, infatti, afferma che credere “è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né alla intelligenza dell’uomo”. Pertanto dalla fede nascono pensiero e azione. Se la vita è un bene, essa va difesa; se la violenza è un male, essa va contrastata; non posso, quindi, accettare l’idea che tutto sia posto sullo stesso piano.

Ricordo che, anni fa, rimasi colpita da un anagramma tratto da un passo del Vangelo di Giovanni riferito al momento in cui, durante la narrazione della Passione, Pilato chiede a Gesù: Cosa è la verità? I commentatori medievali, così avvezzi allo studio e al commento allegorico dei testi, notarono che nelle parole del testo latino della domanda Quid est veritas? è contenuta la risposta, ovvero la frase Est qui adest, “E’ colui che ti sta davanti”. La verità, quindi, per chi crede è Cristo. Dalla fede in Cristo discende poi un pensiero che si traduce in azione concreta. La fede senza le opere è morta in sé stessa, ci ricorda San Giacomo nella sua Lettera. Ma le opere devono nascere da un pensiero definito. Ricordo ancora, a distanza di anni, le polemiche che sorsero alla pubblicazione del documento della Congregazione della Dottrina della Fede, allora guidata dal cardinale Ratzinger, intitolato Dominus Jesus nel quale si affermava che solo in Cristo c’è salvezza. I critici vedevano, infatti, in quel documento un passo indietro nella via ecumenica. Ma perché? Noi sappiamo che non c’è dialogo senza chiarezza; anzi, se annacquo la mia idea per renderla accettabile, mistifico la realtà, inganno l’altra parte. Tutto questo per dire che la fede, indipendentemente dal credo professato, aiuta a combattere la piaga del relativismo.

Avere un’idea precisa, chiara, definita non è uno sbaglio: si cade, invece, nell’errore, quando si vuole imporre la propria idea agli altri. Spesso si confonde l’assoluto con l’assolutismo, ma si tratta di due concetti diversi. E’ esattamente la stessa cosa che capita quando non si distingue fra idea e ideologia: l’una è frutto di un pensiero libero e liberante, l’altra è causa di imposizione. Cosa è subentrato nella nostra società? La paura dell’idea in nome dell’ideologia, la paura dell’assoluto in nome dell’assolutismo. E il politicamente corretto ha fatto il resto. Il risultato è la società liquida: va bene tutto, purché nessuno si senta discriminato. Ma difendere un valore non vuol dire discriminare, anzi! Guardiamo al rischio che abbiamo corso con il ddl Zan: nel tentativo certamente più che legittimo di non discriminare si sarebbe ottenuto esattamente l’opposto.

Lo stesso discorso vale nell’ambito del dialogo interreligioso. E’ fondamentale, direi addirittura vitale, per la nostra società che le diverse confessioni religiose siano in grado di dialogare, di confrontarsi, di creare alleanze ad intra nella società. Quanto bene può nascere per l’uomo moderno dal dialogo tra le religioni! Chi ha la mia età ed è dotato di una certa sensibilità non può aver dimenticato le immagini dell’incontro voluto ad Assisi, nel 1986, da San Giovanni Paolo II, incontro cui parteciparono rappresentanti di tutte le religioni della Terra. Che cosa è lo spirito di Assisi se non un invito al dialogo, alla collaborazione fraterna, alla pace fra gli uomini? Come dimenticare l’abbraccio fra San Paolo VI e il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora, nel gennaio del 1964, un abbraccio che ha contribuito a cancellare divisioni e tensioni che duravano da secoli? Ecco a cosa porta il dialogo fra le religioni: dall’abbraccio nasce un cammino che non cancella certamente le differenze ma abbatte i muri del pregiudizio.

Il dialogo interreligioso, allora, presuppone sempre il rispetto della persona, dei diritti dell’uomo, il suo diritto alla vita, alla libertà, al rispetto delle regole di convivenza civile. I Governi del mondo dovrebbero guardare alle religioni in questa ottica, senza cercare inutili stratagemmi laicisti. Un conto, è bene ricordarlo, è lo stato laico, ossia quello in cui nessuna religione è di Stato, da quello laicista, in cui la lotta alla religione è, paradossalmente, la religione di Stato. Questo domanda però autenticità e coerenza per un dialogo costruttivo che rifugga, da un lato, l’imposizione della propria idea e, dall’altro, la cancellazione o lo svilimento delle proprie convinzioni. Se, per dialogare con l’altro, decido di rinunciare alle mie idee, vuol dire che non ho la maturità necessaria a sostenere le mie convinzioni. Detto in altro modo e in riferimento alla società tutta: occorre che l’uomo di oggi compia uno scatto di maturità, di consapevolezza delle proprie ragioni nel rispetto dell’altro. Rinunciare alle proprie idee o imporle agli altri sono due strategie che denotano un approccio superficiale e immaturo. La questione, lo si comprende, è sempre la stessa: l’uomo di oggi deve riscoprirsi uomo, uscendo dalla superficialità e dalla mediocrità nelle quali è caduto. Solo così il passato non sarà tenuto nascosto o cancellato, anzi diverrà il fondamento di un domani sicuramente incerto ma non opaco.

Suor Anna Monia Alfieri

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