Negli ultimi anni molto si sente parlare di clericalismo, diversi sono stati gli interventi che Papa Francesco ha dedicato al tema indicandolo come un fenomeno nocivo per la Chiesa. Da come se ne discute, però, certamente non si ha che fare con quell’atteggiamento, come lo definisce il vocabolario online Treccani, “di chi sostiene la partecipazione attiva e determinante del clero e del laicato cattolico al governo dello stato, e di chi, prendendo parte alla vita pubblica, subordina le sue scelte politiche agli interessi della Chiesa”.
Bensì, come papa Francesco ha più volte affermato, ad oggi il clericalismo può essere definito come quella divisione che permane tra clero e popolo, tra ministri ordinati e laicato o anche all’interno del laicato stesso, come se alcuni si considerassero o venissero considerati ancora un coetus investito da un particolare potere, questo nella sua accezione più comune, che portato all’estremo può assumere anche forme relazionali mortifere. Già Antonio Rosmini (1797-1855), riferendosi alla prassi liturgica, di questa divisione ne parlava come una piaga della Chiesa, nella sua celebre opera Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Egli notava, infatti, che nel culto pubblico il popolo era solo spettatore, presente alla liturgia “come statue o colonne del tempio”, e non attore. Lo stesso lo si potrebbe dire, oggi come allora, seppur molti e molti passi sono stati fatti, della vita ecclesiale dove i laici, per diversi motivi, sono relegati alla funzione di spettatori o di consumatori di un servizio religioso.
A mo’ di contraccolpo, sempre negli ultimi anni, si sente teorizzare di una Chiesa dove il ministero ordinato quasi debba scomparire per risolvere questa piaga e le sue conseguenze. Ma può essere questa la soluzione praticabile: una Chiesa senza ministeri? Eppure, fin dagli inizi la vita ecclesiale era connotata da un’abbondanza ministeriale, vista come ricchezza e non come fardello, e Paolo, non unico tra gli agiografi, nelle sue lettere lo testimonia: “Alcuni perciò Dio li ha posti in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue” (1Cor 12, 28). Ed è proprio l’Apostolo, parlando dei doni dello Spirito, che suggerisce come l’origine di ogni ministero va rintracciata nel servizio alla comunità: “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune” (1Cor 12, 7). Qui, dunque, può essere trovato il bandolo della matassa per uscire dal clericalismo di cui tanto si parla: far ritornare nell’alveo del servizio il ministero ordinato ed anche ogni altro ministero ecclesiale.
Essi, infatti, non sono assunzione di un potere e neppure di un privilegio mondano, ma una forma di diakonia per l’edificazione del corpo ecclesiale. Un corpo però, bisognoso di ordine ed armonia, nel quale ciascuno svolge tutto e soltanto ciò che è di sua competenza con senso di corresponsabilità e spirito comunionale, smarcandosi dal pericolo della divisione e dall’autoreferenzialità, affinché esso possa testimoniare la propria natura e compiere la missione universale affidatagli da Cristo, suo capo.