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Da Tienamnen a Hong Kong, un filo rosso anti-Pechino

L’immagine simbolo di quel giorno ha attraversato le epoche, nonostante siano passati appena 31 anni. Sembra tanto ma non lo è. Non per la Storia, con la “S” maiuscola. Il “Rivoltoso sconosciuto”, davanti ai carri armati dell’esercito, in Piazza Tienanmen, divenne l’emblema del dissenso del popolo cinese nei confronti di un regime che, fino ad allora, mai aveva visto un’esplosione del malcontento popolare così repentina. E così massiccia da essere repressa con la violenza. Cieca e furiosa, tanto che il numero di morti non si arriverà mai ad accertarlo del tutto. Forse un paio di migliaia. Chissà, magari anche il Rivoltoso sconosciuto era tra questi. Portato via e svanito nelle nebbie del tempo, senza che mai si sapesse chi fosse o che fine avesse fatto. Trentuno anni, niente per la Storia, che oggi si ritrova di nuovo in Cina, dove a sollevarsi non sono gli studenti e gli operai di Pechino ma quelli di Hong Kong. Storie diverse ma, per alcuni, stesso esito. Solo possibile, almeno per ora.

Il “Rivoltoso sconosciuto” davanti ai tank in Piazza Tienanmen

Tienamen e Hong Kong, radici comuni

In piazza Tienanmen c’erano 100 mila persone, accorse per la commemorazione del segretario generale del Partito comunista, Hu Yaobang, scomparso poco prima. Un uomo che per lunghi anni sarebbe stato quasi dimenticato. Ma il cui ricordo portò in piazza un numero sempre più ampio di manifestanti, che colsero l’occasione per portare in strada l’istanza di un popolo che, da troppo tempo, faceva i conti con la repressione di quasi ogni libertà o diritto umano. A Hong Kong non è andata poi così diversamente. L’Extradition bill è stata la goccia, la chiave di volta per portare sul piatto internazionale il desiderio di emancipazione di un popolo dai rigidi dettami del governo centrale. E ha aggregato la protesta, dai movimenti di dissenso fino a quasi tutte le categorie cittadine, operai, studenti e intellettuali. Proprio come nei due giorni di fuoco a Tienanmen.

Retaggi da ex colonia

Niente di strano che i due eventi, distanti temporalmente ma così storicamente vicini, siano stati più volte accostati. Forse perché le radici del dissenso che animano Hong Kong sono le stesse che sospinsero i manifestanti di Pechino. E la decisione di Pechino di procedere con la Legge sulla Sicurezza nazionale, avversata quanto l’Extradition bill dai cittadini di Hong Kong, salterebbe di fatto l’autonomia democratica della città (valida fino al 2035), in quanto verrebbe mano la possibilità del dissenso popolare. Una repressione non in armi come fu a Tienanmen (o almeno non con quell’intensità), ma che nel Porto profumato leggono allo stesso modo. In un momento storico in cui le vicende cittadine alimentano quella distanza fra Pechino e l’Occidente, Washington in testa, che Hong Kong ha a lungo colmato. Tanto che il rimbalzo della questione aveva persino rispolverato il vecchio status di colonia britannica per Hong Kong, con il premier britannico Boris Johnson favorevole a concedere visti facilitati ai 2,85 milioni di abitanti della città. Pechino la ritiene un’ingerenza negli affari interni ma, paradossalmente, la decisione di Johnson suona alle orecchie degli hongkonghesi quasi più democratica di una legge che lederebbe lo stato di diritto. Con buona pace del passato da ex colonia.

Damiano Mattana

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