Sono passati esattamente 34 anni da quell’11 maggio 1981, giorno in cui il mondo intero ha salutato Bob Marley, il musicista che ha sdoganato il reggae. La scomparsa del cantante è avvenuta per un cancro all’alluce del piede, che all’inizio si pensava fosse una ferita causata ad una partita di calcetto, rivelando la sua vera natura solo nel momento in cui ormai la malattia era in fase terminale.
Persino il presidente Obama nel suo viaggio in Giamaica non ha potuto fare a meno di visitare il suo museo. Sulla soglia d’ingresso ha ammesso: “Ho tutti i suoi dischi”. L’artista è riuscito a riunire nelle sue canzoni non solo spensieratezza e gioia con temi importanti come il lotta all’oppressione politica e razziale, l’invito all’unificazione dei popoli di colore come unico modo per raggiungere l’uguaglianza, divenendo non solo uno dei più influenti musicisti contemporanei, ma una vera e propria icona politica e religiosa. L’appartenenza al Rastafarianesimo lo collocò infatti fin da subito in una dimensione spirituale.
Nelle battaglie fu sempre impegnato in prima linea. Come accadde nel dicembre del 1976, tre giorni prima di “Smile Jamaica”, un concerto organizzato dal primo ministro giamaicano Micheal Manley allo scopo di alleggerire le tensioni tra i due gruppi politici in guerra.
Tre giorni prima dell’evento Bob, la moglie Rita e il loro manager Don Taylor subirono un attacco da parte di un gruppo armato composto da ignoti nella residenza del musicista. Marley riportò solo lievi ferite al petto e al braccio. Il concerto si tenne ugualmente e quando gli fu chiesto perché avesse cantato egli rispose: “Perché le persone che cercano di far diventare peggiore questo mondo non si concedono un giorno libero…Come potrei farlo io?!”.
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