STATO-MAFIA, UN PENTITO: “CI DISSERO DI UCCIDERE IL GIUDICE DI MATTEO”

Il pm Antonino Di Matteo è nel mirino di Cosa Nostra. Il primo a mettere nell’obiettivo il giudice palermitano che si sta occupando della trattativa Stato-Mafia era stato Totò Riina in un colloquio privato in carcere con l’ex boss della Sacra Corona Unita Alberto Lorusso. “Lo faccio finire peggio di Falcone” aveva detto il capo dei capi, facendo scattare la macchina della sicurezza attorno all’uomo simbolo del processo per eccellenza, lo stesso in cui ha testimoniato l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A confermare le parole dell’ex leader dei Corleonesi sarebbe una lettera che il collaboratore di giustizia Vito Galatolo sostiene di aver letto durante un summit della malavita palermitana il 9 dicembre 2012.

A scrivere la missiva e a impartire l’ordine sarebbe stato Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino di Cosa Nostra, vertice secondo gli inquirenti della cupola siciliana. “Sta andando troppo avanti e si deve fermare – sarebbe stato il messaggio – Dobbiamo organizzare un attentato al pm Di Matteo. Se ve la sentite ditelo a Mimmo Biondino”. Il boss teme che i magistrati vadano sino in fondo nella ricerca di una verità scomoda sugli affari tra pezzi dello Stato e i criminali più pericolosi della nostra storia. Per Messina Denaro, ha rivelato il pentito, la morte del giudice sarebbe stata anche l’occasione giusta per vendicarsi di Gaspare Spatuzza e Nino Giuffrè, due testimoni d’eccellenza nel processo. Galatolo, rispondendo alle domande dell’aggiunto Vittorio Teresi, ha detto: “Di Matteo si stava intromettendo in un processo che non doveva neanche inziare, quello sui rapporti tra Stato e mafia. E si doveva fermare perché non doveva scoprire certe situazioni”.

Il piano criminale, ha spiegato ancora, vedeva anche il coinvolgimento di un “soggetto esterno” ai clan la cui identità e il cui ruolo restano sconosciuti. “Non era una cosa solo di Messina Denaro – ha raccontato – ma ci doveva essere qualcuno al di fuori, esterno all’organizzazione. E l’obiettivo era far vedere a tutti che la mafia era ancora viva”. C’è qualcosa, in particolare, che a Galatolo non torna su questo elemento misterioso del complotto. “noi non dovevamo sapere chi fosse, il suo nome, il suo cognome, da dove venisse. Io e D’Ambrogio (capo della famiglia di Palermo Centro, ndr) – ha detto – eravamo molto indecisi. Se l’uomo di Messina Denaro fosse stato di Cosa Nostra avremmo dovuto sapere tutto su di lui. Fare un atto così eclatante senza sapere chi fosse coinvolto era impossibile. Non esiste una cosa del genere”.