Quattrocento chilometri. È quanto dista la Libia dall'Italia. Quel tanto che induce Roma a puntare gli occhi con apprensione sull'escalation del conflitto alle porte di Misurata. Aumenta la fragilità della Libia e, al contempo, anche quella dell'Europa, per troppo tempo spettatrice intermittente di uno scenario forse sottostimato. Lo dimostra il vertice straordinario convocato a Bruxelles ieri, che ha visto la partecipazione del ministro degli Esteri, Luigi di Maio, accanto agli omologhi di Francia, Germania, Regno Unito e l'Alto rappresentante per le politiche Ue, Josep Borrell. “Convincerli a cessare il fuoco” è stato l'imperativo conclusivo del vertice, un mantra che ottenebra un serio timore che la guerra passi nel giardino di casa Europa sottoforma di “terrorismo”, come paventato dallo stesso Di Maio. Se l'incontro di Bruxelles è stato visto come l'ennesimo impegno targato Ue al di là del Mediterraneo, la prossimità del teatro di guerra alla Penisola rende concitati i lavori alla Farnesina. Lo dimostra il calendario fitto di impegni del ministro degli Esteri, questa sera atteso al Cairo, poi in Algeria e in Tunisia.
Giuseppe Dentice è ricercatore presso l'Istituto per gli studi di politica internazionale, esperto di geopolitica e sicurezza internazionale, con un focus sul Medio Oriente. Da analista, ha contribuito a stilare diversi rapporti per Palazzo Montecitorio e il Ministero Affari Internazionali
Prof. Dentice, alla luce del vertice d'emergenza sulla Libia di Bruxelles, quanto è importante per l'Italia rimodulare la strategia diplomatica?
“Per l'Italia è essenziale far sentire la propria voce e mostrare la propria posizione davanti a un consesso europeo. Va, però, ammesso che, alla luce dei fatti recenti in Iran e anche in quelli relativi alla Libia, abbiamo visto che il governo italiano non ha fatto una buona impressione. La Farnesina e la Presidenza del Consiglio sono stati lenti a recepire il dossier libico e a mostrare ai Paesi europei la propria attività diplomatica. Se guardiamo, invece, alla Francia e al Regno Unito, sono stati più tempestivi”.
Eppure l'Italia si è posta sempre a cavallo del dialogo, come dimostrano i contatti con entrambi gli schieramenti opposti in Libia…
“Non basta. L'Italia deve far sentire la sua voce, ma deve farlo con gli altri partner. La presenza del governo italiano in loco rimane forte se connessa agli altri attori, come la Francia, mentre d'altro canto non si deve perdere il contatto con i partner come la Turchia, perché il dossier libico è strettamente connesso a quanto sta accadendo nel Mediterraneo Orientale”.
Di Maio è anche atterrato in Turchia per intavolare un dialogo. Perché l'Italia non è tenuta in conto?
“Il blocco della Francia a una soluzione a trazione italiana rientra nell'ottica di un perseguimento di interessi internazionali . I tentativi diplomatici di Palazzo Chigi attuati in passato sono stati utili a ravvivare alcuni temi e posizioni, ma non hanno avuto un'efficacia tale da sviluppare i passi successivi. La Conferenza di Palermo, per esempio, è stata un punto di partenza, non un punto finale. L'Italia doveva essere capofila, ma ha mostrato una certa distanza. Lo dimostra il fatto che in tutti i colloqui internazionali non abbiamo preso parte, così come ha mostrato l'appello ai Paesi europei del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo. L'Italia ha perso la sua credibilità agli occhi della comunità internazionale ed è un aspetto grave, considerata la sua presenza in Medio Oriente e nel bacino del mar Mediterraneo”.
Quale Italia si sta preparando alla Conferenza di Berlino?
“Innanzitutto, si deve auspicare che tale conferenza venga fatta, poiché non sono poche le voci di corridoio che parlano di un rinvio del vertice. D'altronde, un rinvio sarebbe conveniente a tutti gli attori. L'Italia, più di ogni altro Paese, sembra impreparata a muoversi, perché più lenta. Va, comunque, sottolineato che i problemi del nostro Stati in politica estera non sono soltanto relativi agli ultimi governi. Si tratta di un problema di lungo periodo, antecedente agli ultimi governi, che non ha permesso all'Italia di avere una buona agenda di politica estera. A ciò si aggiunga che spesso i nostri leader sono più interessati alle dinamiche interne che esterne”
Sul quotidiano Repubblica di ieri, il commissario europeo all'Economia Paolo Gentiloni ha avanzato la proposta di un esercito europeo. È d'accordo?
“Si tratta di una proposta altamente probabile, che andrebbe inquadrata nella prospettiva di un ridimensionamento degli Stati Uniti nell'area del Mediterraneo. Washington ha intenzione di smarcarsi dai suoi impegni internazionali, e questo colloca sia l'Europa che l'Italia in prima linea. Si tratta di una necessità, che è anche un'opportunità, che richiede il coinvolgimento di attori europei come Francia e Gran Bretagna. In questa iniziativa, l'Italia potrebbe finanche avere un ruolo ma, al di fuori di essa, avrebbe vita breve, come qualsiasi Paese europeo”.
Il generale Leonardo Tricarico è stato comandante delle forze aeree italiane durante il conflitto in Kosovo del 1998-1999, e in seguito consigliere militare della Presidenza del Consiglio. Ha ricoperto l'incarico di Capo di Stato maggiore dell'Aeronautica militare del 2004 al 2006 ed è attualmente presidente della Fondazione ICSA – Intelligence Culture and Strategic Analysis.
Generale, quali sono le sue impressioni sul ruolo ricoperto dall'Italia nel contesto libico finora?
“L'Italia è un Paese storicamente debole e fragile oggi, perché vi è una struttura politico-governativa che non è all'altezza di prendere un'iniziativa diplomatica e mandarla a compimento. Oggi c'è bisogno di una strategia forte, e noi paradossalmente saremmo in grado di farlo su vasta scala perché abbiamo tutti gli strumenti conoscitivi utili”.
Perché, allora, parla di debolezza storica?
“Perché nel nostro Paese in politica estera non c'è mai stata una visione condivisa da tutti i partiti. A uno Stato diviso internamente si è aggiunta un'incultura della difesa: le forze armate, cioè, sono state relegate a strumento di cui si poteva fare a meno, e non viste come uno strumento della politica nazionale in ambito estero. S'includa, inoltre, una sottostima della capacità delle nostre forze. L'attuale ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, sembra più consapevole del ruolo delle forze armate, contrariamente al predecessore”.
Ieri Di Maio è stato a Bruxelles, poi in Turchia, e questa sera raggiungerà Egitto, Algeria e Tunisia perché – ha detto – “la guerra non è mai una soluzione e l'unica risposta è il dialogo”. È d'accordo?
“Il dialogo è lo strumento principe, ma non dovrebbe essere una 'scoperta recente'. Avremmo dovuto accorgercene già dal 2011, se non prima, quando cioè siamo stati l'elemento che ha contribuito alla caduta di Gheddafi. Se a quei tempi avessimo riflettuto o dialogato in maniera più proficua, non avremmo la Libia di oggi. Al contrario, abbiamo concesso l'uso delle basi aeree e dello spazio aereo italiano. Il resto è venuto da sé”.
Macron in passato ha rilanciato l'idea che l'Europa dovrebbe cominciare ad attrezzarsi da sola. È d'accordo?
“Finché ognuno persegue i suoi interessi, non può esistere una politica comune in tal senso. Prima di trovare un compimento, questo auspicio deve misurarsi con l'individuazione di un interesse comune. L'Italia, inoltre, deve chiedere un posto di rilievo, perché è il Paese militarmente più capace di rivendicare azioni militari”.
Nello stesso discorso sopraccitato, Macron parlò di “morte della Nato”. Che ne pensa?
“La Nato è l'unica organizzazione capace di gestire situazioni di conflitto. Certamente, va ri-orientata profondamente, ma guai a cancellarla. Molti leader politici auspicano una cancellazione della Nato e una gestione tutta europea dell'area: oggi, però, non ci sono le condizioni per un esercito europeo. Bisognerebbe partire, piuttosto, dal dialogo con tutti gli attori coinvolti, specialmente nel constesto libico”.
In che senso?
“Se si vuole la pace, non si può semplificare la situazione della Libia nei due fronti Al-Serraj vs Haftar. Ci sono una miriade di centri di potere in Libia e bisognerebbe dialogare con tutti loro. A livello più internazionale, proporrei un vertice nel quale si siedano tutti i Paesi sponsor per trovare una soluzione, proponendola poi a tutti i contendenti, anche attraverso le loya jirga, cioè le assemblee delle tribù locali. Solo così si può pensare a un percorso di riedificazione della struttura statuale libica. E, se necessario, ci vorrebbe una risoluzione Onu che, nei fatti, imponga il rispetto di tale processo”.
Non sarebbe una violazione dello stato di diritto? Le Nazioni Unite hanno riconosciuto la leadership di Fayez al-Sarraj come l'unica legittima in Libia…
“Nel 2015 quando a Skhirat furono stabilite le linee-guida nella formazione di un governo libico, alcuni provvedimenti ottennero la benedizione delle Nazioni Unite, ma altrettanti accordi furono disattesi. Quando, nel febbraio successivo, fu proposta la nuova compagine del governo, una parte del Parlamento di Tobruk vi si oppose. Come vede, alcune intese sono state tralasciate e l'Italia s'è adagiata”.
Mentre il dossier libico rende l'impegno politico dei Paesi europei una necessità sempre più stringente e trasversale, si profila il timore di attacchi contro i contingenti italiani. Luca Marco Comellini è segretario del Sindacato dei Militari e ha inviato una lettera al ministro della Difesa, chiedendo un ritiro immediato delle 300 forze armate operanti in Libia, e non solo
Nella sua lettera indirizzata al ministro Guerini, lei parla di Forze “disarmate”. Perché?
“Perché la situazione delle nostre Forze armate è difficile. I capi di Stato maggiore lamentano da tempo la necessità di nuovo personale e la carenza di mezzi. L'età media delle forze militari italiane è di 45 anni. Se si guarda alla Libia, i combattenti dei due schieramenti sono tutti giovani, mentre noi pretendiamo di combattere con un personale con diversa età anagrafica e che necessita un addestramento specifico. Ricordo che fare addestramento costa, ma si preferisce spendere miliardi per missioni all'estero piuttosto che per formare un esercito”.
L'Italia non è impegnata in azioni offensive, però…
“Dal 2011 anche il nostro Paese è artefice della situazione di quell'area, Medio Oriente compreso. La cosiddetta 'coalizione dei volenterosi', costituitasi inizialmente per abbattere il regime iracheno di Saddam Hussein per poi partecipare alla stabilizzazione dell'Iraq occupato, ha visto la presenza dell'Italia stessa, che ha una responsabilità precisa nell'escalation della situazione: oggi la sua eco si ravvisa nel Mediterraneo orientale e nei flussi migratori. E questo non solo in Libia”.
Se ci spostiamo al Kuwait, la componente italiana è costituita da caccia e droni disarmati, col solo compito di sorveglianza e ricognizione…
“Sì, ma anche se i droni non sono armati, le loro informazioni vengono poi acquisite da altri Paesi. L'Italia non può tirarsi indietro dalle sue responsabilità, né si può nascondere dietro la foglia di fico dell'Onu, specialmente in Libia dove ci sono interessi legati al petrolio”.
Quale strada può, dunque, imboccare l'Italia nel caso libico?
“Sono due le strade del nostro Paese: imboccare quella militare o rispettare l'articolo 11 della nostra Costituzione, in cui si dice chiaramente che 'l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali'. È ben chiaro che, nel primo caso, ci sono evidenti limitazioni”.
In che senso?
“Nel 2015-2016 per il nostro governo era attestato un debito di oltre 38 miliardi in armamenti acquistati. I programmi di armamento sono divisi negli esercizi pluriennali, per cui il pagamento si distribuisce nel tempo e questo pesa sulle casse del nostro Paese. L'ho vissuto con il caso del programma di armamento degli F-35: nel 2011 scrissi un ordine del giorno con cui il governo Monti ne tagliò 41, consentendo un risparmio complessivo di 5 miliardi. Questi, invece di essere stanziati nell’addestramento del personale, sono stati impiegati per la legge navale. Bisognerebbe, quindi, comprendere che gli affari di un Paese non possono essere risolti da altre culture ed evitare di continuare a rischiare per un conflitto che non è il nostro”.
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