Kathmandu, la capitale del Nepal, è sempre stata un tradizionale “corridoio” verso la città indiana di Dharamsala, che è anche la sede del governo tibetano in esilio e dimora del Dalai Lama. Ma le pressioni di Pechino hanno convinto il governo a cambiare rotta: d’ora in poi, infatti, il governo nepalese negherà sia i documenti sia lo status di rifugiato politico a tutti quei tibetani che raggiungeranno il suo territorio cinese.
Shaes Narayan Poudel, capo nepalese della Commissione nazionale per il coordinamento dei rifugiati, conferma la notizia specificando che “se si continuerà a riconoscere i rifugiati come tali, dovremmo affrontare nuove ondate migratorie. E non abbiamo più spazio”. Ma senza il riconoscimento ufficiale, i profughi del Nepal non hanno il permesso né di spostarsi in campi né di trovare un impiego. Al momento i tibetani nel Paese sono almeno 20mila, sparsi in 21 centri.
A denunciare in prima linea questa linea politica sono le organizzazioni degli attivisti per i diritti umani, che lamentano come questa decisione sia una “svendita di profughi in nome dell’economia”. Al momento, infatti, il governo di Kathmandu sta portando avanti una politica di riavvicinamento alla Cina dopo anni di cooperazione con l’India, e non vuole infastidire nuovi possibili partner. Ma questa vicenda ha visto la completa della società civile e delle associazioni in difesa dei profughi: “Il governo dovrebbe trattare allo stesso modo tutti coloro che chiedono protezione – spiega Subidh Pykurel, attivista nepalese, ad AsiaNews – senza documenti, i rifugiati vivono gli arresti domiciliari e questo non è giusto”. “Non si può ignorare il diritto internazionale – conclude il docente universitario Kapil Shresth – il governo deve ripensare a questa scelta”.
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