Nemmeno la pioggia che imperversa su Hong Kong riesce a fermare la marea umana che, in risposta alla chiamata di Civil Human Rights Front, si è data appuntamento al Victoria Park della città asiatica per dar vita a quella che, numeri alla mano, è la seconda più grande manifestazione dall'inizio della protesta nata in risposta all'extradition bill: 1,7 milioni di persone, poche di meno rispetto ai 2 milioni che si erano mobilitate per la dimostrazione del 16 giugno scorso. Il centro della città è stato completamente paralizzato dai cortei e dalla marcia dei cittadini, per niente frenati né dalle dure repressioni esercitate dalla polizia locale né dalla possibilità di un intervento risolutivo e in forze da parte della Cina. Una dimostrazione di massa ma senza incidenti, organizzata con il preciso scopo di scrollarsi di dosso l'etichetta di rivoltosi per dimostrare che Hong Kong chiede un cambiamento in modo pacifico.
Quasi inevitabile il diramarsi dei cortei per le strade della città, nonostante il divieto di marcia: Victoria Park, infatti, non è riuscito a contenere tutti i dimostranti che si erano uniti al sit-in di Churf, con gli organizzatori che si sono visti costretti, scortati dalle Forze dell'ordine in tenuta antisommossa, a far uscire le persone dal quadrante per consentire l'accesso di altre persone, trasformando di fatto l'uscita dei manifestanti in altrettante marce pacifiche. Unica zona presidiata, l'edificio che ospita la sede della rappresentanza del governo di Pechino in città, nei giorni scorsi oggetto di lanci di oggetti e di altre dimostrazioni da parte dei manifestanti.
Nel frattempo, il governo di Hong Kong guidato da Carrie Lam, ha tentato di difendersi dalle accuse di repressione violenta delle proteste, affermando che in queste settimane gli agenti hanno utilizzato al minimo la forza e “solo se attaccati”, sostenendo inoltre che nelle undici settimane di protesta, “le stazioni di polizia sono state attaccate o assediate oltre 75 volte” con “oltre 180 poliziotti rimasti feriti”. Versione che stona con quanto sostenuto, fra gli altri, dalle Nazioni Unite, le quali hanno avviato delle indagini per decretare se vi siano state o meno delle violazioni degli standard internazionali di intervento.
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