Rivolta a Hong Kong: come saltano gli equilibri in Estremo Oriente

Non ha ancora deciso nulla Pechino, né se né come intervenire a Hong Kong, a quasi duemila chilometri di distanza. Come sicure, la Cina ha dato solo due cose: che l'uso della forza “è un'opzione chiaramente a disposizione”, e che non si ripeterà niente di simile a quanto accaduto trent'anni fa a Piazza Tienanmen. Questa perlomeno è la promessa del governo cinese che, nella prima delle due variabili finora fornite, riportata nella giornata di ieri dal Global Times, chiarisce tacitamente che il movimento di protesta in corso a Xiānggǎng deve essere fermato. Lo aveva già fatto alcuni giorni fa, avvertendo il governo cittadino guidato da Carrie Lam di far rientrare la situazione nella normalità. E a farlo era stata l'ambasciatrice cinese in Italia, Li Junhua, nel corso della sua prima conferenza stampa in tale veste: “Il governo cinese ha una posizione molto chiara: è necessario fermare il caos e riportare l'ordine. Qualora ci si dovesse trovare di fronte a una situazione di peggioramento, che il governo di Hong Kong non riuscirà a gestire, il governo centrale cinese non resterà a guardare”.

Repressione violenta

Il punto è che solo durante la rivolta degli ombrelli le autorità di Hong Kong si erano ritrovate di fronte a una protesta di massa di tali proporzioni: all'epoca furono 79 giorni di occupazione, con ombrelli gialli aperti per difendersi dai getti degli idranti durante la mastodontica marcia del 28 settembre 2014 sull'Harcourt Road, evento culminante di una protesta tutto sommato pacifica. Stavolta, però, la situazione è ben diversa, perché le proteste spontanee nate per contestare il controverso extradition bill hanno coinvolto la fascia giovanile della popolazione, che ha dato vita alla protesta più imponente che la città ricordi, arrivando a dimostrazioni che hanno interessato anche alcuni snodi cruciali della vita civile della città, arrivando a occupare il Parlamento e, per diversi giorni, anche l'aeroporto. Proteste con un comune denominatore: una repressione senza riguardi, che ha spinto persino l'Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite a verificare la possibilità di violazione degli standard d'intervento internazionali, esortando le autorità cittadine a indagare su alcuni incidenti avvenuti durante gli interventi delle Forze dell'ordine, con particolare riferimento alla foto di una ragazza con un'evidente ferita all'occhio (che ora rischia di perdere), divenuta in breve un altro dei simboli della protesta, con molti dei giovani manifestanti che hanno utilizzato cerotti sull'occhio destro per denunciare la violenza nei loro confronti.

Posizioni ambigue

Va da sé che la polveriera sul “Porto profumato”, al di là delle preoccupazioni espresse per la manifestazione sempre più frequente di episodi di repressione violenta, veda proprio nella Cina un attore interessato che, nonostante le rassicurazioni, resta un'incognita della quale tenere conto. E non tanto per la notizia, trapelata un paio di giorni fa, in cui l'Intelligence americana parlava di un invio massiccio di truppe al confine della città (dove in realtà stanziano da una ventina d'anni, ossia dopo il reintegro sotto l'egida cinese di Hong Kong alla cessazione del suo status di colonia britannica): il timore principale è legato proprio all'ambigua dichiarazione rilasciata nelle scorse ore, che perlopiù non ha diradato i sentori di una possibile nuova Tienanmen. Anche il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha affidato a un tweet la sua tacita preoccupazione, sponsorizzando la via del confronto pacifico: “Se il presidente Xi incontrasse direttamente e personalmente i manifestanti, ci sarebbe una conclusione lieta e illuminata al problema di Hong Kong. Non ho dubbi”. La sensazione è che la mossa di Pechino (l'invio di rinforzi al confine e l'annuncio di un'indecisione sull'utilizzo o meno della forza) vada letta nell'ottica di far retrocedere i manifestanti, spingendoli a sgonfiare la loro protesta in virtù di un possibile intervento risolutivo (con conseguenze imrpevedibili) cinese. Avveretimento implicito che non sembra aver sortito gli effetti sperati, considerando che il movimento giovanile che anima la rivolta in città ha già convocato per domenica una nuova imponente manifestazione, annunciando che parteciperanno almeno due milioni di persone.

Equilibri precari

Certo è che la scheggia impazzita di Hong Kong rappresenta al momento la priorità del governo cinese. Il che, quasi per inerzia, distoglie l'attenzione di Pechino, che ha urgenza di risolvere il problema, dagli scenari geopolitici che mai come in questo momento appaiono in fermento in Estremo Oriente. Perché la battaglia commerciale con gli Stati Uniti va avanti più o meno di pari passo alle tensioni che risalgono nella zona di confine fra le due Coree e, nondimeno, con una Taiwan che non intende rinunciare all'indipendenza da Pechino nonostante l'aut aut ricevuto con cui la Cina si è detta disposta a usare la forza per riannettere il territorio sotto l'autorità cinese. Incombenze, quelle interne, che sganciano Pechino dal tenere un occhio vigile sulle intemperanze crescenti a Pyongyang dove, nelle ultime ore, il leader Kim Jong-un ha scelto di tornare ad alzare la voce, per uscire sbattendo la porta dalla camera di dialogo con Seul: “Non abbiamo altro di cui parlare – ha spiegato un portavoce tramite l'agenzia Knca – con le autorità del Sud e non abbiamo intenzione di sederci ancora a un tavolo”.

L'incognita Pyongyang

Porte chiuse al dialogo e venti di vecchie tensioni che tornano a soffiare sulla linea di demarcazione di Panmunjom. A Pyongyang, quelle esercitazioni congiunte tra gli Stati Uniti e i vicini del Sud non sono mai piaciute, interpretate come un segnale ostile nei confronti di un Paese che, a detta del suo leader, si è impegnato in colloqui di distensione e, addirittura, in un programma di denuclearizzazione, nonostante lo stesso Kim Jong-un avesse in passato dichiarato di voler elevare la Corea del Nord al rango di Paese nucleare. Anzi, di aver già raggiunto standard tali da poter ascrivere la parte nord della Penisola di Corea fra gli Stati in grado di produrre un'arma atomica. Roba di un paio d'anni fa ma che, in qualche modo, resta all'orizzonte come un monito per tutti gli attori in campo: perché il dialogo non è semplice e, soprattutto, perché l'intesa fra Washington e Seul continua a produrre effetti che a Pyongyang non gradiscono e, di conseguenza, non impediscono ai nordcoreani di procedere con i test balistici. Sei nell'ultimo mese, tutti con testate a corto raggio rivolte verso il Mar del Giappone.

Risultati vanificati?

Il numero degli esperimenti missilistici, dopo un periodo di flessione, è tornato ad alzarsi a seguito del giro di boa di Hanoi, dove Donald Trump e Kim avevano tentato senza successo di sugellare i buoni propositi emersi dal vertice-lampo di Singapore, ritrovandosi invece più distanti e con gli Usa costretti a fare i conti con una fune nuovamente tese delle relazioni con la Corea del Nord. Oggi la situazione è diversa rispetto a due anni fa, quando i toni erano alti e le terre emerse sperimentavano il timore di una guerra a colpi di armi nucleari. Il che, a ogni modo, non toglie che l'interruzione del dialogo voluta da Pyongyang con Seul ponga fine (per ora provvisoria) a una via che aveva portato frutti importanti, non ultimo lo sgonfiamento della paura atomica, visto il lavoro svolto dal presidente sudcoreano, Moon Jae-in, nella mediazione fra Nord Corea e Stati Uniti, ottenendo inoltre un importante correlato come la partecipazione di una delegazione nordcoreana alle Olimpiadi invernali di PyeongChang, svolte proprio al di qua della zona demilitarizzata. Del resto, nonostante il fallimento del vertice di Hanoi, Trump e Kim avevano avuto modo di incontrarsi di nuovo nel giugno scorso, quando il Tycoon era diventato il primo presidente americano a toccare il suolo nordocreano, concretizzando un'idea nata qualche giorno prima al G20 di Osaka. Il che, in buona sostanza, si presentava come un segnale incoraggiante per una distensione che, nonostante il pessimo esito del confronto vietnamita, continuava a restare l'obiettivo principale, visti anche i colloqui proseguiti tra le delegazioni di Washington e Pyongyang (lo stesso Kim aveva inviato una lettera al presidente Trump, da lui definita “bella e positiva”) con risultati sostanzialmente buoni a detta degli americani.

La chiusura dei canali di dialogo col Sud, però, interrompe anche qualcos'altro: un delicatissimo percorso di riunificazione, vanificando il lavoro diplomatico fatto fin qui al fine di garantire, come nelle previsioni del presidente Moon, un risultato clamoroso: la Penisola coreana unita entro il 2045. Un obiettivo che, vista la situazione attuale in Estremo Oriente, rischia di tornare nel novero dei buoni propositi più che restare una missione concreta.