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La carta giapponese “washi” tra i nuovi patrimoni dell’Unesco

Il “washi” è l’antica carta giapponese fatta a mano secondo il metodo tradizionale, derivato dall’antica arte cinese di lavorazione della cellulosa. Nel mese prossimo con ogni probabilità verrà inserita nel “Patrimonio culturale immateriale dell’Umanità” dell’Unesco. Si tratta di una produzione delicata e complessa  di cui, oggi, si occupano pochissimi artigiani che saranno considerati “tesori nazionali viventi”.

Il maestro giapponese Nobushige Akiyama afferma: ”Oggi la carta è diventata come l’aria: la usiamo dalla mattina alla sera. Ma nell’antichità era un bene prezioso”. Akiyama è un artista contemporaneo che ha fornito una dimostrazione della laboriosa produzione tradizionale della “washi” e le sue opere attualmente sono esposte al Museo nazionale di Arte Orientale di Roma, fino all’11 gennaio 2015.

“Durante il periodo Edo – spiega il maestro giapponese – che va dal 1603 al 1868, ogni provincia aveva la sua produzione specifica di carta e quella di qualità migliore, scelta da funzionari appositi, veniva inviata allo Shogun (il capo militare del Giappone feudale) con la massima cura”. La perdita o il deterioramento della preziosa merce poteva costare la vita a chi si occupava del trasporto. Si dice che questa carta sia così resistente da resistere anche ai danni procurati dagli insetti.

Il “washi” viene tradizionalmente prodotto utilizzando le fibre vegetali del gelso da carta o di altre piante locali come “diplomorpha sikokiana”, “edgeworthia papyrifera” e “euonymus sieboldianus”. Si possono però usare anche fibre di bamboo, canapa, riso e frumento che conferiscono caratteristiche differenti alla carta così prodotta. Una variante di questo materiale viene utilizzato dall’Opificio delle pietre dure di Firenze per assorbire gli strati di inquinanti sulle superfici dei quadri in fase di restauro, visto che questo materiale non cede collanti.

Davide Chiossi

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