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Villa Imoletta, il nuovo modello di inclusione delle fragilità

Il “Dopo di Noi” è un concetto estremamente importante per le persone con disabilità e le loro famiglie. Significa aiutare le stesse a non perdere tutti i progressi compiuti in anni di socializzazione e, nel contempo, porre le basi di un futuro in cui, la sicurezza e la dignità della persona, siano messe al centro.

La normativa in Italia

In Italia, dopo la legge 328 del 2000 riguardante il Progetto di Vita, la legge numero 112 del 22 giugno 2016 conosciuta come Dopo di Noi è composta da dieci articoli il cui obiettivo è quello di evitare la sanitarizzazione delle persone con disabilità più grave nel momento in cui vengono a mancare i parenti che li hanno accuditi e seguiti. La finalità della stessa è quella di consentire alle persone con disabilità di continuare a vivere nelle proprie case oppure in case-famiglia o in strutture di cohousing. Questo percorso di vita indipendente, ovviamente è lungo e tortuoso e deve essere sviluppato nel “Durante Noi” ma, grazie all’impegno di molti soggetti pubblici e privati, si stanno costruendo diverse esperienze per generare inclusione e porre le fondamenta di una società più aperta all’accoglienza della fragilità. Una di queste è il progetto “Imoletta”.

La Fondazione Imoletta

Nel 1976, a Ferrara, in località Quartesana, Serafino Monini, padre di tre figli, di cui uno nato con un disturbo intellettivo, ha acquistato una villa che, nel 1500, era appartenuta ad un funzionario degli Estensi, il conte Giovanni Battista Laderchi, di Imola, da qui il nome “Imoletta”. L’intento era quello di creare una azienda agrituristica nella quale il figlio con disabilità potesse lavorare. Purtroppo, però, lo stesso è morto poco dopo ed oggi, uno dei fratelli di quel ragazzo, Tullio Monini, insieme alla famiglia, ha deciso di destinare la struttura all’attuazione di una progettualità legata all’inclusione delle persone con disabilità. Interris.it lo ha intervistato.

L’intervista

Come nasce e che obiettivi si pone il progetto “Imoletta”?

“La genitorialità di questo progetto è doppia. C’è una storia familiare e personale legata a nostro fratello che aveva dei problemi legati ad una disabilità cognitiva. Io ero il fratello maggiore e ho vissuto, molto tempo fa, il problema della fine della scuola nonché dell’entrata nel mondo del lavoro. Negli ultimi dieci anni, sono stato responsabile del servizio di integrazione scolastica del comune di Ferrara e mi sono occupato dei ragazzi con disabilità, anche grave, fino alla fine delle scuole superiori. Ci si rende conto che, l’entrata nel mondo adulto e del lavoro, da parte dei ragazzi con disabilità complesse è un problema grave. Da ciò è nata l’idea della Fondazione Imoletta. Il nostro obiettivo è quello di lavorare per abbassare lo scalino che, i ragazzi con una disabilità più impegnativa, hanno solo per entrare nell’età adulta e, di conseguenza, aiutarli nei loro percorsi di autonomizzazione al massimo possibile”.

Che valore assume, per voi, l’inclusione delle persone con disabilità e fragilità?

“La riflessione che abbiamo fatto è la seguente: non possiamo parlare di inserimento lavorativo per i nostri ragazzi. Probabilmente non è nelle loro possibilità e in ciò che può essere una buona vita per loro. Però, escluderli totalmente dal mondo del lavoro, significa relegarli a dei servizi che, dopo aver sperimentato l’inclusione nell’ambito scolastico, diventano solamente dei luoghi separati per persone con disabilità. Tra l’altro sono dei servizi rivolti alle persone dai 16 ai 65 anni di età quindi, in qualche modo, è la fine di un percorso evolutivo. La scommessa del progetto è che, anche se ci sono delle disabilità importanti e complesse, abbiamo a che fare con dei giovani che hanno energia, positività e voglia di sperimentarsi. Conseguentemente, il progetto lavora per cercare all’interno del mondo del lavoro e della vita cittadina, delle possibilità di fare inclusione anche in presenza di disabilità di una certa complessità. Ciò che io penso è che, un ragazzo con una disabilità cognitiva importante, se riesce a stare per tre o quattro mezze giornate in un contesto socializzante e lavorativo importante, come può essere un bar, una biblioteca o un supermarket, lo portano a vivere una relazione ampia con la comunità che può essere importante e può portare un contributo. Questa è la scommessa che stiamo cercando di mettere in atto”.

Quali sono le attività che vi contraddistinguono per il raggiungimento di questo obiettivo di inclusione?

“Siamo all’inizio del progetto. Uno dei nostri punti di forza è la presenza di un grande gruppo di genitori che opera noi, con i quali ho iniziato a interagire quando lavoravo nel servizio comunale. È un gruppo molto vasto di auto mutuo aiuto di genitori. In particolare, l’idea di fondo, è che, i genitori e la famiglia, rivestono una posizione centrale anche in questa fase della vita dei ragazzi e non solo nei primi 18/20 anni di vita. Nel senso che, i genitori, in qualche modo, possono essere ancora i registi che aiutano i percorsi di autonomia dei loro ragazzi anche nella vita adulta. Essi preparano quindi un “Dopo di Noi” attraverso un “Durante Noi” nel quale le famiglie hanno ancora un ruolo importante. Scommettiamo molto su una tecnica di lavoro sociale che si chiama “family group conference”, la quale è una modalità di lavoro di rete in cui le famiglie sono aiutate a edificare una rete formale e informale che costruisca un progetto di vita per i ragazzi con disabilità all’uscita dalla scuola superiore. Questa è una delle nostre caratteristiche principali, ossia lavorare molto con le famiglie, scommettere molto sui genitori e non lasciarli soli nel compito di accompagnare all’entrata della vita adulta i loro figli”.

Quali sono i vostri auspici per il futuro? In che modo, chi lo desidera, può aiutare la vostra opera di inclusione?

“Ho lavorato molto per l’inclusione scolastica, la quale rappresenta un po’ un fiore all’occhiello della realtà italiana che contraddistingue l’esperienza di inclusione nel Paese. La stessa è stata realizzata perché c’è stato un grande investimento di risorse economiche e umane dello stato con gli insegnanti di sostegno e, da parte dei comuni, con gli educatori che affiancano i ragazzi che hanno maggiori difficoltà di inserimento nel processo di inclusione scolastica. Tutto questo impegno, oltre i diciotto anni, si riduce in modo drammatico. Nel senso che, dopo quest’età, tutti gli investimenti, vanno a dei servizi che non puntano più sull’inclusione, ma puntano maggiormente a fare dei servizi di cura per persone con disabilità, le quali però, a questo punto, rinunciano alla scommessa dell’inclusione. L’idea di fondo del progetto è che, in prospettiva, ci vuole un investimento di risorse pubbliche più ampio, paragonabile a quello che c’è dagli 0 ai 18 anni anche dai 18 ai 40 anni in quanto, tale età, racchiude ancora due decenni di grande energia da parte dei ragazzi, pur avendo delle limitazioni. In attesa che queste risorse pubbliche si mettano, l’appello e il senso dell’impegno di Fondazione Imoletta è quello di chiamare la comunità locale ad impegnarsi direttamente perché i ragazzi non possono aspettare che lo stato o gli enti locali eroghino le risorse, hanno bisogno oggi di risposte. Quindi, il senso della fondazione, è di chiamare a raccolta famiglie, ma anche aziende, che possano contribuire direttamente alla realizzazione dei progetti della comunità locale. Questo perché l’inclusione nell’età adulta non può aspettare e, di conseguenza, cerchiamo un sostegno di volontariato oppure risorse economiche che ci consentano di avviare delle sperimentazioni con i ragazzi. Tali sono i due canali fondamentali”.

Christian Cabello

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