LA VOCE DEGLI ULTIMI

“Tutto quello che sappiamo del Covid è che non ne sappiamo niente”

“Tutto quello che sappiamo del Covid è che non ne sappiamo niente. Ma tutti pretendono di saperne più degli altri”, afferma a Interris.it Mattia Feltri, direttore di Huffington Post ed editorialista della Stampa.

Covid senza presunzione della verità

In tempo di pandemia “un giornalista oggi deve portarsi dietro più dubbi e più scrupoli di quanti normalmente dovrebbe averne. E rinunciare, più che mai, al pregiudizio e alla presunzione della verità”, aggiunge una delle più brillanti firme del giornalismo italiano.Direttore, come è cambiata l’informazione nell’emergenza Covid?

“Non è cambiata granché. Noi lavoriamo esattamente come prima. La differenza è che una presenza così ossessiva del virus, nelle nostre vite, sta (quasi) monopolizzando le nostre giornate e il nostro lavoro. Sappiamo che l’indomani non avremo davanti una pagina bianca, ma una pagina con già scritto sopra Covid”.La pandemia, sotto il profilo della comunicazione, è come una guerra? 

“Si è discusso a lungo se la pandemia sia paragonabile a una guerra. Il mio amico Gigi Riva, grande inviato di guerra, rifiutava il parallelo ma, quando è tornato al suo paese, Nembro, in Val Seriana, straziato dal coronavirus, mi ha detto che la gente era psicologicamente provata, anche col senso di colpa dei sopravvissuti, esattamente come aveva visto nelle zone belliche. Si usa quella terminologia perché viene automatica”.Per quale motivo?

“Perché siamo nella condizione particolare di chi è davanti a un nemico e tutti gli sforzi sono tesi a non soccombergli e a respingerlo. Non mi scandalizza l’uso, semmai l’abuso, soprattutto se compiaciuto, di un certo vocabolario. Senza dimenticare che alcuni termini, penso a coprifuoco, si crede siano di origine bellica ma invece hanno origini diverse”.In pandemia come in guerra, la prima vittima rischia di essere la verità?

“Sì, la prima vittima è la verità, ma la verità è sempre la prima vittima. In qualsiasi condizione. La verità è la prima vittima quando si pensa di poterla raggiungere e diffondere. La parola uomo e la parola verità non stanno insieme. In momenti difficili, sono particolarmente distanti. Nel mio lavoro tutto quello che posso promettere non è verità, è lealtà”.A Tangentopoli, al post-11 settembre o a quale altra emergenza è paragonabile la crisi Covid sotto il profilo del giornalistico usato per raccontarlo?

“Se vogliamo restare nell’ambito bellico, Mani pulite fu una guerra civile, l’11 settembre una guerra molto minacciosa ma molto lontana, il Covid è una guerra  che si combatte nelle nostre strade e nelle nostre case, ogni giorni da nove mesi. Quindi il linguaggio di Mani pulite era aggressivo, spaventato con l’11 settembre, terrorizzato ora, al netto di chi pensa sia tutto un complotto. Ma quello che posso notare, indipendentemente dalla situazione particolare, è l’impoverimento del nostro linguaggio. Si usano meno tempi dei verbi, meno punteggiatura, meno vocaboli”.Cioè?

“Più una lingua è povera e meno sfumature sa rendere. Oggi non sono molti quelli che sentono il bisogno di esprimere un giudizio sfumato, quindi complesso. E per raccontare Covid, con le mille difficoltà del caso, ce ne sarebbe un gran bisogno”.In pandemia qual è il ruolo di chi lavora nei mass media?

“Il ruolo è quello di sempre, ma infinitamente più difficile da ricoprire. Oggi c’è una mole spaventosa di informazioni che arrivano da ovunque. Dalla politica, dalla scienza, dall’università, dagli ospedali, dallo Stato e dalle Regioni, dai colleghi, dai commentatori. E persone autorevoli dicono cose che sono l’opposto di quelle espresse da persone altrettanto autorevoli. Orientarsi in questo vasto mare è letteralmente impossibile. L’informazione è sempre stata, per sua natura, rapsodica e contraddittoria, ma ora lo è a livelli parossistici”.

Giacomo Galeazzi

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