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Eredità e attualità di Gino Giugni

Ci sono norme che hanno fotografato e favorito l'ingresso dell'Italia nella modernità. E' stato così per la messa al bando delle case chiuse ad opera di Lina Merlin. Lo stesso è accaduto per la salvaguardia del lavoro, resa possibile grazie all'impegno infaticabile di Gino Giugni. Statuto dei lavoratori è il nome con cui è nota la legge 300 del 1970 che contiene norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento. “La legge ebbe tre padri – sottolinea il giornalista e scrittore Alberto Papuzzi -. Nell’iniziativa politica Giacomo Brodolini, socialista, ex sindacalista, ministro del lavoro nel primo governo Rumor (1968); nei contenuti giuridici Gino Giugni, anch’egli socialista, espressione della società civile, presidente della commissione che formulò le norme; sul piano dei risultati concreti Carlo Donat-Cattin, democristiano di sinistra, ministro del lavoro che portò prima il Senato poi la Camera a approvare la legge (con l’astensione dei comunisti)”.

Pace sociale e organizzazione imprenditoriale

In materia di lavoro è, senza dubbio, la fonte normativa più importante nel nostro ordinamento dopo la Costituzione, che ha fissato i principi fondamentali della materia. “La legge accoglie le motivazioni essenziali del progetto lanciato dal congresso di Napoli della Cgil del novembre 1952, quando per la prima volta Giuseppe Di Vittorio sollecitò l’approvazione di uno statuto dei diritti dei lavoratori – evidenzia Treccani.it -. La ratio della norma va ricercata, infatti, nella volontà del legislatore di proteggere il prestatore come parte più debole del rapporto di lavoro, nella tradizionale linea di sviluppo del diritto del lavoro, permeata dall’esigenza di salvaguardare la pace sociale e l’ordinato perseguimento dell’unitario fine produttivo dell’organizzazione imprenditoriale”. 

L'attentato delle Br

“Dieci anni fa, il 5 ottobre del 2009, moriva a 82 anni il giuslavorista Gino Giugni – riferisce l'Adnkronos -. Giurista, nel 1969 diviene presidente della commissione nazionale per lo Statuto dei Lavoratori e ha l'incarico di scrivere il testo che è una delle norme principali del diritto del lavoro italiano.  Nel maggio del 1983 fu vittima di un attentato delle Brigate Rosse e nello stesso anno viene eletto senatore nelle liste del Partito socialista italiano. Ricopre il ruolo di presidente della commissione per il Lavoro e la sicurezza sociale, e diviene membro della commissione parlamentare inquirente sulla Loggia massonica P2″.

La vocazione riformatrice

Nel 1987 viene rieletto senatore, riconfermato presidente della commissione per il Lavoro e la sicurezza sociale e diviene membro della commissione parlamentare per le Riforme istituzionali. Dal 1993 al novembre 1994 Giugni è presidente nazionale del Psi e dall'aprile del 1993 al maggio 1994 ricopre la carica di ministro del Lavoro e della sicurezza sociale del governo Ciampi. Nel 1994 viene eletto deputato del Partito socialista e diviene membro della commissione per l'Impiego pubblico e privato. Dal novembre 1994 è presidente del gruppo dei Socialisti italiani. Viene nominato presidente della Commissione di vigilanza sul diritto allo sciopero. 

Il contributo alle relazioni industriali

“La rilettura della straordinaria elaborazione di Gino Giugni deve servire, in materia sindacale, anche a interpretare correttamente le dinamiche delle nuove relazioni industriali. Così, vanno eliminate rendite di posizione non suffragate da elementi oggettivi di rilevazione della rappresentatività e vanno individuate soluzioni rispettose delle previsioni costituzionali in materia di efficacia generale dei contratti collettivi – dichiara all'Adnkronos Maurizio Ballistreri, giuslavorista e docente di Diritto del lavoro dell'università di Messina -. A dieci anni dalla scomparsa di Gino Giugni – è necessario discutere non solo sull’attualità, invero indiscutibile, dell’opera del maestro, ma anche sull’influenza che essa ha nel divenire delle relazioni industriali nel nostro Paese”. E come è noto, prosegue il professor Ballistreri-. Giugni costruì la sua teoria dell’ordinamento intersindacale grazie a un fecondo confronto in ambito comparato, in primo luogo con le elaborazioni di Otto Kahn-Freund e la sua scuola di Oxford, di Hugo Sinzheimer e Karl Renner, nonché di Selig Perlman, allievo di John Commons. E’ stata questa teoria ad aver consentito al contratto collettivo nazionale di categoria la definizione di minimi uniformi, con il reciproco riconoscimento degli attori collettivi”. Inoltre “la legislazione promozionale del sindacato sui luoghi di lavoro di chiara matrice giuridica riformista completò il disegno delle relazioni industriali in Italia, conferendovi sistematicità, con il sostegno all’azione sindacale attraverso il Titolo III dello Statuto dei lavoratori, con il dialogo tra l’ordinamento intersindacale e quello statuale. Oggi, quel dialogo va aggiornato, anche alla luce di un elevato pluralismo sindacale, non sempre genuino in verità, come dimostrano i cosiddetti contratti-pirata”. 

L'attenzione alle prospettive future

D’altronde, evidenzia Ballistreri, “Gino Giugni fu sempre un giurista che nel proprio impegno teorico coltivò il gusto per la sperimentazione e il dubbio, alieno da ogni dogmatismo e contrario ai tabù: la sua elaborazione, nel decennale della scomparsa, deve stimolare la dottrina, la politica del diritto, le parti sociali a interrogarsi sulle soluzioni migliori allo scopo di conferire stabilità ed efficienza al sistema di relazioni industriali nel nostro Paese”. Questo lavoro “va fatto con strumenti legali che guardino al futuro e non servano a giustificare una sorta di corporativismo semi-pubblicistico, imperniato sulla nozione di “sindacato comparativamente più rappresentativo“, che inibisce l’ormai irrefrenabile pluralismo sindacale e sociale, quindi va fatto sulla base e nel rispetto dei principi di libertà e di pluralismo sanciti dall’articolo 39, I comma, della Costituzione. Ricordare Giugni e il suo pensiero giuslavoristico deve servire anche a sviluppare il dibattito su queste tematiche”.

A cinque anni da piazza Fontana

Quando in data 20 maggio 1970 entra in vigore la legge chiamata Statuto dei lavoratori siamo nella fase forse più cruenta della vita italiana dopo fascismo e guerra: sono trascorsi solo cinque mesi dalla bomba di Piazza Fontana e non più di un anno dalla rivolta degli operai veneti a Valdagno. “A Torino grandi scioperi martellano le officine Fiat – precisa Papuzzi -. Mentre nel paese è ancora vivo il ricordo degli eccidi di Avola in Sicilia e di Battipaglia nel Salernitano, dove la polizia aveva sparato sui braccianti in sciopero, con un bilancio di quattro morti e oltre duecento feriti. La nuova legge è anche una risposta a questi drammi. In realtà era un progetto che veniva da molto lontano: Giuseppe Di Vittorio, da Cerignola, il celebre leader della Cgil, aveva invocato nuove norme a protezione del lavoro fin dall’inizio degli anni cinquanta. Ma bisogna aspettare che la società italiana cambi identità, da paese agricolo a realtà industriale, e che inurbamento e migrazioni facciano crescere nelle officine una nuova forza lavoro, che rivendica nuove libertà e diritti”. Quasi romanzesca la vicenda di Brodolini che fece della legge una sua personale strenua battaglia. Malato di cancro, ottenne l’ approvazione del consiglio dei ministri nel giugno 1969, morendo pochi giorni più tardi a Zurigo. 

A tutela dei lavoratori non dei lavativi

“Lo Statuto dei lavoratori è stato uno spartiacque fra due diverse condizioni e immagini del lavoro- evidenzia Papuzzi -. Non riguardava soltanto gli operai ma furono soprattutto essi a trarne benefici. Prima della legge, erano schiacciati da una mole di regole, potevano essere spiati e sorvegliati, subivano la disciplina del cottimo, subivano licenziamenti collettivi, mentre le nuove norme attenuavano i vincoli del fordismo, garantivano il diritto alla libertà d’opinione, prevedevano partecipazione sindacale nelle assemblee, difendevano il salario unico, abolivano le gabbie salariali, modificavano i meccanismi di inserimento al lavoro, esigevano la giusta causa per i licenziamenti, proteggevano le condizioni delle donne lavoratrici”. Era la più profonda innovazione fra capitale e lavoro, dai tempi del passaggio delle otto ore. Confindustria era ostile (all’inizio). I datori di lavoro più conservatori erano per un boicottaggio. Inoltre si temeva una svolta di destra, per cui Donat-Cattin e il socialista De Martino spinsero per approvare la legge in fretta. Perciò non era tutto oro quel che luccicava, lo stesso Brodolini confidò a Giugni: “Fa in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi”. Ma alla fine il provvedimento entrò nel costume, come parte della modernizzazione promessa dal centrosinistra. “Sulla scena d’Europa si affacciava un’altra Italia“, commenta Papuzzi.

Giacomo Galeazzi

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