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Concerto di Natale, canzoni e spettacolo sfidano la guerra

Musica e solidarietà. E' questo, da sempre, il binomio indissolubile sul quale poggia l'intera impalcatura del Concerto di Natale in Vaticano. Un appuntamento ricorrente che, forse, rientra in quella categoria di eventi che contribuisce a riempire le case di chi il concerto non può seguirlo nell'Aula Paolo VI, allietando la sera della Vigilia di Natale con due ore di compagnia portata da grandi artisti e buona musica. Magari, proprio per via della sua “familiarità”, sfugge quanto l'evento possa offrire un contributo importante nell'ambito della società, rivolgendo il suo sguardo verso quelle realtà che, anche a Natale, trascorreranno le loro giornate in contesti difficili, in molti casi vessati da violenze e persecuzioni. E lo fa attraverso il suo sostegno al Progetto Scholas e alle Missioni Don Bosco, programmi di solidarietà organizzati rispettivamente in Iraq e Uganda allo scopo di sostenere la popolazione locale avviando sul territorio progetti educativi rivolti alle famiglie e ai giovani, con l'obiettivo di creare una rete che possa ricostruire o consolidare una coscienza collettiva e contribuire alla riedificazione di contesti sociali profondamente scossi da privazioni e violenza. Irene è una giovane volontaria di Scholas: lei ha avuto modo di guardare negli occhi il popolo di Erbil e di altre zone dell'Iraq devastate dalla guerra e dall'odio.

 

Il territorio iracheno, negli ultimi anni, ha subito enormi ferite. Quali erano le tue sensazioni prima di intraprendere questo viaggio?
“Mi aspettavo di vedere con i miei occhi una realtà in guerra, perché sapevo della persecuzione subita dai cristiani. Quindi immaginavo una situazione di distruzione. Di fatto, una volta in Iraq, quello che ho potuto vedere erano città scheletriche, cimiteri profanati, case distrutte. Ho toccato con mano una realtà rasa al suolo, non solo a livello di mura ma anche di dignità delle persone”.

Decidi di partire, guardi negli occhi la realtà dell'Iraq ma, soprattutto, inizi a essere parte di un progetto…
“Conoscevo bene il progetto di Scholas e anche la forza dei suoi programmi in giro per il mondo. Sapevo di partire con una realtà che dall'educazione parte per ricostruire l'umanità, promuovendo una cultura del dialogo, incontri, ponti di collegamento tra giovani”.

Hai parlato di una realtà in guerra ma anche di tanti giovani… Qual è la loro risposta a questi progetti?
“La Chiesa è molto attiva ma ha bisogno di aiuto. Noi siamo andati lì per capire cosa era già in atto. Quindi non arrivare con qualcosa di nuovo ma ascoltare e dall'insieme ricostruire un percorso che loro già avevano iniziato. Abbiamo visto una Chiesa partecipe soprattutto nell'educazione informale. Ricostruire quei luoghi anche che fossero di sport e aggregazione per cercare di ricreare innanzitutto armonia e risanare il trauma subito dai ragazzi. Il progetto di Scholas propone proprio questo, lavorare sull'educazione con giovani e creare ponti tra ragazzi iracheni e italiani perché insieme si possano avere quegli strumenti di ricostruzione del tessuto sociale. E lo fa attraverso mezzi di educazione informale come arte e sport e progetti di cittadinanza. Insieme lavoriamo per diventare cittadini”.

Giovani che vogliono costruire un futuro per il loro Paese. Ma la percezione della difficile spinge qualcuno di loro a manifestare il desiderio di andar via?
“Sì, c'è una coscienza molto evidente e molto profonda anche tra ragazzi di 13-14 anni. Loro hanno una visione molto chiara di quella che è la loro realtà. Alcuni di fatto se ne sono andati, soprattutto i giovani dei territori più colpiti. Ma parliamo anche di rifugiati interni, ovvero di quelle persone sfollate o perseguitate che si sono rifugiate nelle zone interne dello stesso Paese. Piano piano, alcuni stanno adesso ritornando nelle loro precedenti realtà. Però quello che colpisce è vedere ragazzi molto giovani che ti dicono che il loro sogno è di rimanere lì, di voler dare il proprio contributo per ricostruire il loro Paese e avere un futuro, mettendosi in gioco per farlo”.

Quali territori sono stati coinvolti in questa rete?
“Siamo stati nel Kurdistan, nel nord dell'Iraq. Abbiamo visitato Arbil, una delle città che ha accolto più gruppi dei rifugiati interni, ma siamo andati anche nella Piana di Ninive, visitando diverse comunità distrutte, ascoltato testimonianze di persone che sono dovute scappare dalla persecuzione”.

Damiano Mattana

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