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Romano (“Al Revés”): “L’umanità passa attraverso l’empowerment delle persone”

Uno spazio accogliente dove persone con diversi vissuti, dal migrante che ha attraversato il Mediterraneo a chi è in esecuzione penale esterna, dalla donna rimasta troppo tempo dentro casa – per vari motivi – alla persona con problemi di salute mentale, si trovano insieme a lavorare, a socializzare, a professionalizzarsi, in un luogo che simboleggia il riscatto della legalità sul crimine organizzato. Un’impresa sociale che, nel solco dell’economia di comunione, oltre a guardare alla sostenibilità economica dà peso al “fatturato umano”. Questa è la sartoria sociale “Al Revés”, nata a Palermo, e per conoscere meglio questa realtà Interris.it ha parlato con la socia fondatrice e volontaria della cooperativa Rosalba Romano.

L’intervista

Quando è nata l’idea di una sartoria sociale?

“Dieci anni fa, come iniziativa volontaristica per l’inserimento lavorativo delle persone migranti cercando di valorizzarne un know how che avevamo osservato durante un viaggio in Africa. C’erano infatti molte persone con dei piccoli banchetti e delle macchine da cucire molto vecchie. Al rientro a Palermo, per individuare soggetti che avessero delle competenze, abbiamo contattato il Centro Astalli di Palermo e abbiamo trovato venti persone. Ci siamo sistemati in una stanza che ci ha messo a disposizione un’altra associazione, pagando l’affitto, e in un anno abbiamo costituito la cooperativa – altrimenti dal punto di vista legale avremmo potuto sviluppare alcun tipo di autonomia. Anche i servizi sociali, con cui avevamo preso contatti, ci hanno segnalato delle persone tra cui quella che è diventata la nostra prima presidente, una mediatrice culturale che adesso ricopre di nuovo l’incarico di presidente. Abbiamo fatto la scelta di sperimentarci noi per primi, senza avere le ‘spalle coperte’ da nessuno. Una parola che sicuramente ci contraddistingue è ‘fatica’”.

Terza da sinistra, la socia fondatrice e volontaria della cooperativa Rosalba Romano

Quali sono i valori che vi accompagnano, vi sostengono e vi spronano in questa esperienza?

“Quando abbiamo cominciato a fare impresa sociale, abbiamo studiato i testi dell’economista Luigino Bruni, ci siamo appassionati a quelle che erano state le prime esperienze dell’applicazione della legge Basaglia a Trieste, poi l’esperienza della Cittadella di Loppiano. Vogliamo lavorare come una comunità, per questo lavorano con noi persone diverse con tipi di problemi differenti, ed essere generativi, perché ci sono tanti modi di fare e vivere l’impresa. Seminiamo per raccogliere, i nostri prodotti devono essere fatti bene perché fare bene le cose è un’impostazione educativa importante. L’umanità passa attraverso l’empowerment delle persone, tutti si devono sentire utili e responsabili. I ‘cardini’ della nostra impresa sono il lavoro per l’ambiente e per le persone. Lavoriamo prevalentemente con il riciclo e vendiamo il vintage e di seconda mano, inoltre tramite i social e andando nelle scuola cerchiamo di educare a un acquisto consapevole e a un consumo etico. Promuoviamo la ri-socializzazione delle persone migranti che si sono professionalizzate o delle donne che si sono trovate a rimanere molto tempo dentro casa. Siamo anche un trampolino di lancio presso altre aziende, dato siamo riusciti a fare assumere da un’azienda un ragazzo migrante che è stato da noi. Siamo un servizio, non un progetto che inizia e finisce, e il nostro fatturato umano è certamente più alto di quello produttivo, ma non abbiamo debiti e ci siamo sempre sostenuti anche attraverso bandi che abbiamo vinto”.

Quante persone sono passate per la sartoria e quanti sono i vostri dipendenti oggi?

“In dieci anni, circa 500. Siamo ecumenici, nel senso che nella nostra compagine ci sono persone di diverse fedi così come persone che si dichiarano non credenti. E’ stata una scelta di rispetto nei confronti di tutti, e siamo stati molto chiari quando abbiamo deciso di non ‘legarci’ a nessuno, anche se comunque collaboriamo con la Caritas o con la  Chiesa valdese. Da quando abbiamo cominciato ad assumere, abbiamo avuto in media sempre sette persone in organico, sia tempo determinato che indeterminato. Ci rivolgiamo a persone svantaggiate, abbiamo tra noi ragazzi o anche adulti che sono passati per la rotta migratoria libica e hanno vissuto situazioni talmente al limite che non le vogliono ricordar, persone con problemi di salute mentale, individui con percorsi di detenzione o in esecuzione penale esterna. Abbiamo anche un laboratorio nel carcere femminile palermitano Pagliarelli. L’arte sartoriale non è una cosa meccanica bensì artigianale e le competenze richiedono tempo e impegno, così cerchiamo di suddividere il lavoro come fosse una catena in cui tutte le persone sono un anello. C’è una governance che gestisce questa ‘catena’, gli assistenti sociali e una sarta professionista che ha fatto questa scelta etica”.

Chi arriva da voi cosa trova?

“Il nostro motto ‘l’inclusione non si dice ma si fa’, e su tutte le nostre magliette campeggia lo slogan ‘siamo tutti ex di qualcosa’. Le persone non sono i loro errori, chi è in esecuzione penale esterna svolge le sue mansioni qui insieme al migrante e alla persona con problemi di salute mentale in un clima di umanità. Ci diamo del tu, l’equilibrio in un luogo di lavoro e di socializzazione non è l’esercizio di potere ma l’autorevolezza. C’è sempre qualcuno che per un momento supera le righe, a quel punto noi operatori interveniamo anche parlandogli al di fuori della sartoria. E’ un lavoro molto lavoro educativo li sproniamo a diventare loro stessi dei buoni esempi per gli altri. Responsabilizzare le persone crea spazi di dialogo, nel quale possiamo aiutarle a trovare una loro speranza, una loro serenità”.

Come raggiungete la sostenibilità economica?

“Una grossa parte ci viene dalla partecipazione ai bandi, dal 5 per mille e dal fundraising. Poi c’è la sostenibilità immediata, quella attraverso il lavoro con i clienti diretti. Inoltre,  lavoriamo molto con aziende ed enti che vogliono realizzare del merchandising. Facciamo tutto con materiali di riciclo e questo, per l’azienda che ci sceglie, è un plusvalore”.

Un altro elemento che vi caratterizza è l’impegno per la legalità. Come lo declinate?

“L’abbiamo scelta sin dall’inizio, aderendo a Libera e Addiopizzo, volevamo dimostrare non ci fosse nessun margine di compromesso, in un settore – quello del lavoro sartoriale – pressoché sempre in nero. Dopo alcuni anni di autogestione, abbiamo vinto un bando del Comune di Palermo per prendere in gestione in locale dove ci troviamo attualmente, un bene confiscato a un esponente della criminalità organizzata. La gestione del bene confiscato è una grande responsabilità”.

Quali saranno i vostri prossimi passi?

“Vorremmo aprirci di più alla disabilità adulta, ai giovani adulti e ai ragazzi che finiscono le superiori e non hanno più spazi di socialità, perché per accettare l’altro è importante conviverci. Vorremmo inoltre aprirci alle esperienze di volontariato”.

Lorenzo Cipolla

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