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Covid-19: un dottore in prima linea contro la pandemia

Tra le categorie di lavoratori che stanno vivendo la pandemia in prima persona ci sono gli operatori sanitari. Per avere uno sguardo “dal di dentro”, In Terris ha intervistato la dottoressa Simona D’Addesa, responsabile dell’unità operativa “osservazione breve intensiva” presso il pronto soccorso dell’ospedale di Senigallia (Ancona) chiedendole di raccontarci come vive l’emergenza coronavirus un dottore “in prima linea”.

Dottoressa, ci dica un po’ di Lei:
“Io sono un medico di pronto soccorso specializzato in gastroenterologia ma lavoro al pronto soccorso da 21 anni. Ora opero nell’ospedale di Senigallia, nelle Marche. Dopo la specializzazione ho fatto un corso in prima emergenza, poi sono entrata in pronto soccorso e mi sono “innamorata” di questo lavoro in prima linea. Amo la medicina d’emergenza perché qui il medico lavora in tanti campi, perciò se ami molto la medicina (come io la amo) è il posto giusto per vedere un numero molto elevato di casi medici diversi tra loro, cosa che non accade in un reparto specialistico dove ti occupi principalmente del tuo settore”.

Quali sono le caratteristiche principali per stare al pronto soccorso?
“Non solo il sangue freddo, come molti pensano, perché il ‘sangue freddo’ – da non confondersi con la freddezza o l’indifferenza – è il risultato della preparazione: più sei preparato e meglio riesci ad affrontare le situazioni critiche. L’altro aspetto fondamentale è l’empatia: sentire cosa prova il paziente”.

E’ cambiata la sua vita con l’emergenza coronavirus?
“Sì è stata stravolta. Io sono sposata, ho una figlia adolescente, due fratelli di cui uno medico nell’emergenza territoriale e genitori anziani, over 70. Dal punto di vista lavorativo, prima avevo dei turni regolari e mi occupavo di pazienti che oggi vengono definiti non-covid, cioè ‘normali’, con le più svariate patologie. Adesso, l’organizzazione del pronto soccorso di Senigallia è completamente cambiata perché l’ospedale è stato dedicato quasi esclusivamente ai malati di Covid-19, mentre altre strutture si occupano solo di malati non positivi. Anche l’organizzazione del lavoro interno è del tutto cambiata: arriviamo la mattina e ci occupiamo esclusivamente delle persone che hanno il coronavirus. Il pronto soccorso le visitiamo e le inviamo nel reparto adatto a seconda della gravità dell’infezione. Io, nello specifico, mi occupo dei malati mediamente gravi: sia di quelli che hanno una diagnosi ma non sono così gravi da aver bisogno della terapia intensiva (ma hanno comunque bisogno di assistenza come l’ossigeno) sia di quelli che aspettano ancora la diagnosi ma che hanno sintomi compatibili al coronavirus”.

I pazienti “no covid” dove vanno?
“I pronto soccorsi delle Marche sono stati divisi nel tentativo di lasciare ospedali completamente “puliti” e per dare la possibilità agli altri pazienti di venire curati senza rischiare di infettarsi”.

L’ospedale di Senigallia è in appoggio a quelli della provincia di Pesaro-Urbino?
“Nelle prime fasi, quando l’epidemia si è spostata dalla Lombardia all’Emilia Romagna e poi nelle Marche attraverso Pesaro, abbiamo preso molti pazienti di quella provincia: gli ospedali di Fano e di Urbino non riuscivano più a ricoverare perché erano pieni. C’è stato un boom improvviso ed eccezionale”.

L’ospedale di Senigallia reggerà il picco di infezioni o il sistema è carente?
“Dipende. Noi stiamo attualmente reggendo, se però le infezioni dovessero continuare ad aumentare con la stessa progressione che abbiamo visto nelle scorse settimane nelle Regioni maggiormente colpite, non potremmo reggere. Questo perché gli ospedali italiani erano già sottodimensionati prima dell’emergenza; in una situazione straordinaria come questa, è chiaro che non possano essere sufficienti. Nel nostro ospedale abbiamo riconvertito completamente quasi tutti i reparti, c’è tutto un padiglione prima occupato da ortopedia e chirurgia che è stato riconvertito in covid e diviso in tre reparti per pazienti di diversa gravità, ma tutti positivi”.

Sono già pieni i reparti?
“Sì, in questo momento sono già pieni, i posti letto sono occupati al 100%, perciò un aumento dei casi ci metterebbe in difficoltà”.

I medici sono sufficienti?
“Siamo sotto organico come al solito. Non è cambiato nulla, purtroppo, con l’emergenza: nel mio ospedale non ci sono state nuove assunzioni, non erano previste; né sarebbe stato possibile: da diverso tempo i concorsi nella mia specialità, il pronto soccorso, vanno deserti. Nessuno vuole lavorare qui, in prima linea: preferiscono gli altri ambiti specialistici”.

Come sono cambiate le sue abitudini quotidiane fuori dal lavoro? Teme per la salute dei suoi cari?
“Moltissimo, sì. Le mie abitudini familiari sono cambiate drasticamente. Io non faccio altro se non lavorare, poi torno a casa e prima di salutare mia figlia e mio marito mi lavo completamente. Poi, non faccio nient’altro: non mi avvicino più ai miei familiari, sto in quarantena come tutti, non vedo più da molti giorni i miei genitori. Li ho intravisti una volta sola e da lontano, ma non sono più andata a trovarli. Gli anziani sono la categoria più a rischio e io potrei essere un veicolo di trasmissione, nonostante tutte le precauzioni che prendo. Meglio non rischiare. Così anche mio fratello, che vive la stessa situazione in prima linea”.

Pensa che la risposta italiana all’emergenza sia stata tempestiva o la malattia sia stata sottovalutata?
“Col senno di poi, si potrebbe dire che le autorità avrebbero dovuto muoversi prima. Ma penso anche che umanamente sia stato fatto davvero tanto, e attualmente viene fatto altrettanto. Molto si può fare ancora dal basso: la cittadinanza deve evitare di uscire il più possibile. Al momento, è la popolazione che non ha ancora capito la gravità di questa malattia. Ma è una situazione talmente strana che nessuno di noi era preparato: nessuno ultimamente in Italia (ma anche in Europa) aveva avuto a che fare con una pandemia. Era obiettivamente difficilissimo prepararsi. Per questo penso che sia stato fatto molto e la situazione non è così negativa come alcuni vorrebbero dipingerla”.

Cosa consiglierebbe alla cittadinanza?
“Di restare a casa. Di non essere egoisti pensando: esco solo io, vado solo a fare la spesa. Perché questo succede troppo spesso, altrimenti non si vedrebbe per strada così tanta gente che va a fare la spesa e compra due cose, magari non essenziali. Uscire il meno possibile e solo per le emergenze, questo è il mio consiglio”.

Cosa consiglierebbe ai suoi colleghi della Lombardia che sono in grave sofferenza per surplus di lavoro, migliaia di casi positivi e – purtroppo – moltissime vittime?
“Ai miei colleghi della Lombardia non ho consigli da dare, ma solo un grande incoraggiamento. Mi rendo conto di cosa stiano vivendo: sono in contatto con molti di loro e so che la situazione è molto grave, più grave di quella che da fuori riusciamo a percepire. Quindi, sono molto in pena per loro e per la tanta gente che sta male e muore. Ho anche io una famiglia, ho anche io genitori anziani e sono terrorizzata. E ho visto come le persone muoiono…”

Come?
“Purtroppo già il fatto di morire di per sé è terribile. Questa è una patologia acuta, non degenerativa, che colpisce prevalentemente persone anziane che se non avessero preso il virus probabilmente avrebbero vissuto per diversi altri anni. Persone che non lavorano più, non sono considerate “produttive” ma che in realtà hanno una loro dignità: vivono, viaggiano, sono di aiuto alle famiglie, sono i nonni dei nostri figli. Morire così rapidamente, spesso senza la possibilità del conforto dei propri cari, è una cosa terribile”.

Milena Castigli

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