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Coronavirus, l’impatto sul mosaico dell’America latina

Sono immagini che hanno fatto il giro del mondo, ed era inevitabile che succedesse. Tanto che, per bocca del vicepresidente del Paese, Otto Sonnenholzner, l’Ecuador ha fatto ammenda per quanto le sue strade hanno mostrato. Scuse pubbliche per i fotogrammi che hanno mostrato i corpi nelle strade, a decine, abbandonati per l’impossibilità di dar loro sepoltura. Un sistema sanitario letteralmente travolto da un quadro di contagi da coronavirus che pure, per il momento, non mostra cifre come quelle europee: 3.456 malati, 191 i deceduti, secondo le stime della Johns Hopkins University. L’Oms il conteggio addirittura lo alza. Ma su un aspetto, il più devastante, tutti sono concordi: troppi di loro, soprattutto nella provincia di Guayas, non hanno nemmeno potuto essere disposti con dignità.

Dopo le proteste

Guayaquil, centro orbitante del Paese più della capitale Quito, si è trasformata velocemente in un inferno, in cui le prime violente scudisciate della pandemia hanno prodotto scenari surreali, aggravando ulteriormente un quadro complessivo già fortemente compromesso da mesi di sconvolgimenti sociali. L’Ecuador non aveva fatto eccezione all’ondata di rivolte sociali scatenate a ottobre, tra insurrezione della Conaie e il piano di austerità (il cosiddetto “paquetazo”) che aveva portato la popolazione a trasformare Quito in un catino rovente. Più o meno il clima respirato a Santiago, in Cile, dove il rincaro dei trasporti pubblici aveva improvvisamente sollevato la piazza contro “trent’anni di neoliberismo”. Più o meno come il popolo dei barrios boliviani aveva deciso di porre fine all’egemonia di Evo Morales a La Paz.

Il bilancio

Stavolta non ci sono incendi nella capitale ecuadoregna. In scena vanno spaccati di quotidianità che colpiscono al cuore. Addirittura, per i più poveri, sarebbero state realizzate bare di cartone, pur di evitare di accatastare corpi avvolti in sacchi di plastica ai bordi delle strade. Il tutto in un quadro in cui i dati continuano a oscillare, vista la quasi impossibilità di tracciare un contorno certo di quanto accade nel Paese andino. Certo, va detto che non tutte le immagini mostrate fin qui hanno trovato riscontri ufficiali, e le autorità del Paese non hanno certo mancato di farlo notare, bollando molte di queste alla stregua di fake news. Resta però il fatto che, tra verità e informazioni dubbie, la situazione in Ecuador, così come in altri Paesi dell’America latina, resta grave. E non tanto per i numeri in sé, quanto per la possibilità che una diffusione di tipo europeo possa aggravare ulteriormente la capacità di resistenza di un comparto sanitario che, per stessa ammissione dell’ambasciatore Nelson Robelly Lozada a RaiNews24, “ha colto impreparato il Paese, per quanto riguarda medici, ospedali e infermieri, ma sappiamo che una situazione comune a tutto il mondo”.

Situazione complessa

L’emergenza in Ecuador, per quanto la più emblematica, è solo una parte dell’opaco specchio che filtra la luce dalla nostra sponda dell’Atlantico. Anche se ancora in fase iniziale, la pandemia ha cominciato a risalire le Ande, toccando Paesi come il Perù (107 decessi) e la Bolivia (dove le vittime sono per il momento 14). Ma anche a ridiscenderle, con gli oltre 5 mila casi registrati in Cile (con 43 decessi). Nazioni che, come contesti più grandi come quello brasiliano, vivono le loro condizioni di difficoltà. In Perù ad esempio, come riferito da Azione contro la Fame, il livello di povertà raggiunge circa il 12% della popolazione, innescando una reazione a catena tra malnutrizione (a cui i dati Acf attribuiscono il 43% dei casi anemia nei bambini al di sotto dei tre anni) e difficoltà occupazionale.

Il mosaico

Del resto, sotto questo aspetto il contesto sudamericano non differisce da quello di alcuni Paesi africani, dove è proprio il sottomondo del lavoro giornaliero che rischia di creare la variabile più deleteria. Vite alla giornata che potrebbero rendere inefficaci le misure di lockdown per coloro che, senza redditi, la quarantena significherebbe resistere appena qualche giorno. Preoccupa, soprattutto in Brasile, lo scenario degli agglomerati urbani come le favelas, contesti estremi come le popolazioni dell’Amazzonia. Un mosaico che inizia a mostrarsi in tutta la sua complessità, dipingendo sfumature differenti man mano che il paesaggio inizia a cambiare. Dai vicoli di El Alto alle metropoli di Rio e San Paolo, autoisolatesi in nome di una logica piovuta dall’amministrazione locale più che dalla presidenza e che, in un primo momento, rischiava di creare una frattura con una Planalto fin troppo negazionista, perlomeno nell’ufficio massimo. Il Brasile, al momento, tira le fila del contagio da Covid. Ma l’allerta è generale. Multiforme, come il volto di un continente immenso che, nella sua diversità, affronta un’emergenza inattesa, nel momento in cui la parola d’ordine era ritornare, gradualmente, alla normalità.

Damiano Mattana

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