Il dietrofront di ArcelorMittal: le radici del caos

Il fermento non è tanto per capire cosa fare con ArcelorMittal, quanto per trovare possibili soluzioni a un'eventuale catastrofe dal punto di vista lavorativo. Perché le sue intenzioni il gruppo franco-indiano le ha manifestate (e le ha anche ribadite tramite il suo ad), decidendo di lasciar perdere con il contratto per gli stabilimenti tarantini (e non solo) dell'ex Ilva in nome dell'assenza del famigerato scudo penale che tanto fa discutere. Il punto, semmai, è che il buco che sta pericolosamente facendo vacillare (se non crollare) l'intesa con ArcelorMittal espone a un rischio elevatissimo gli oltre 10 mila lavoratori, oltre che un piano ambientale ritenuto fondamentale per la prosecuzione del lavoro dell'industria siderurgica, imprescindibile se si pensa alla necessaria conciliazione fra sviluppo e tutela dei cittadini. Un problema, questo, che si pone alla radice non solo della vicenda ArcelorMittal ma dell'intero corso Ilva, dagli albori ai giorni nostri, intesi come il lasso di tempo (giugno scorso) in cui il governo decise l'abbattimento del passaggio posto a tutela dei manager del gruppo dai reati penali legati proprio al previsto piano di risanamento ambientale. Il che, in sostanza, poneva il caso dell'ex Ilva su un concreto piano di rischio già qualche mese fa anche se, forse, al clamoroso colpo di coda nessuno osava ancora pensarci.

La vicenda

Fatto sta che ArcelorMittal ha deciso di assestare a governo e classe operaia un colpo potenzialmente da k.o. e non solo per il piano ambientale, visto che il contratto prevedeva investimenti da 1,1 miliardi. La partita sull'impatto inquinante però resta il cardine attorno al quale ruota tutto, compresa la tenuta del governo, che con l'ex Ilva vede aprirsi un nuovo e destabilizzante punto di crisi: memori dell'esperienza del 2012, quando gli stabilimenti di Taranto finirono al centro della bufera per un'inchiesta che parlava addirittura di “disastro ambientale” e con i cittadini sul piede di guerra per le polveri rosse su golfo e città. All'epoca, probabilmente già in spaventoso ritardo Si decise il commissariamento, l'amministrazione straordinaria decisa dallo Stato (che nel frattempo si è ripreso Ilva), andata avanti a oltranza fino all'inserimento del gruppo franco-indiano tramite Am Investco, con ArcelorMittal che piazza il colpo esattamente un anno fa (novembre 2018), un paio di mesi o poco più dall'ennesimo allarme polveri rosse e con una copertura dei Parchi minerari che procedeva a rilento.

Nodo di fondo

L'avvento del gruppo di investitori sembrava poter risolvere un problema annoso, forse senza considerare che l'intesa originaria stipulata dodici mesi fa si era scoperta con i piedi d'argilla nel momento in cui la salvaguardia legale viene soffiata via, aprendo il suddetto buco contrattuale, con ArcelorMittal già convinta di potersi sfilare. Il punto è che, assieme alle incertezze di fondo, torna a galla anche la paura che aveva accompagnato la campagna per la chiusura dell'Ilva all'epoca della questione ambientale, durata praticamente cinque anni e mezzo, quella di veder cadere d'un colpo un intero comparto di lavoratori. Ora il punto focale riguarda la situazione degli operai, stretti fra un leitmotiv di respingimento reciproco tra salvaguardia ambientale e potenziamento del settore siderurgico e uno stallo contrattuale che vede tutele legali e piano ambiente come parte dello stesso ingranaggio. Va da sé che l'eventuale punto sulla produttività dell'ex Ilva di Taranto assesterebbe un colpo altrettanto duro al mercato dell'acciaio, probabilmente sfilando l'Italia dalla competitività nel settore.

Quesito irrisolto

Per questo, ora come ora, è corsa alla soluzione paracadute, tra chi preme per il ripristino dello scudo legale “per togliere ogni alibi ad ArcelorMittal” (in primis Matteo Renzi e il Partito democratico) e chi invoca il rispetto delle regole, tra cui il premier Conte: “È stato stipulato un contratto e saremo inflessibili sul rispetto degli impegni incontrando Arcelor Mittal”. Stessa linea anche per il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli: “Non permetteremo ad ArcelorMittal di ricattare lo Stato italiano mettendo sul piatto oltre 5 mila esuberi. Gli impegni vanno mantenuti e i cicli produttivi in flessione possono essere accompagnati con strumenti di sostegno, non licenziando le persone. Specialmente quando un anno prima si è firmato un accordo per la piena occupazione”. Visione concorde, è che a tale risultato non si sarebbe mai dovuti arrivare. Perché, tra inchieste e richieste, la conciliazione tra ambiente e sviluppo reclamava d'essere la pietra angolare del rapporto tra fabbrica e città. Tra cavilli e burocrazia, l'intesa vera e propria da trovare (e anche a stretto giro), con Arcelor o altri gruppi, è ancora quella.