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Liu Xiaobo tra silenzi e ipocrisie

Molte cose ci dice la morte di Liu Xiaobo. Di chi? Appunto. La prima è che siamo ignoranti. Letteralmente. Non sappiamo nemmeno chi sia. Tranquilli: neanche mezza Cina lo sa. L’altra metà, invece, non sa ancora che è morto. Chi era? Un dissidente, dicono. Come dire che Michelangelo era uno scalpellino. Liu Xiaobo era molto di più. Era un martire della libertà. E se esiste davvero il Dio nel quale io credo, egli ora è con Lui.

Cosa chiedeva? Democrazia e fine del partito unico. Due cose che a noi sembrano normali, scontate, dovute. Non abbiamo lottato per averle, non ce le siamo guadagnate. Abbiamo trovato la “pappa pronta”. E ci permettiamo persino il lusso di guardare nel piatto, storcere il naso e lamentarci che la “minestra” è “poca” o, addirittura, non abbastanza “buona”. Ogni volta che ci viene voglia di allontanare da noi quel piatto, ricordiamoci di Liu Xiaobo, morto chiedendo per il suo popolo (1,4 miliardi di persone) un sorso di quell’acqua – la libertà – che noi sprechiamo, rovesciandola a fiumi per terra. Senz’acqua non c’è vita: ricordiamocelo.

Democrazia e fine del partito unico sono bestemmie per Pechino. Bestemmie che nessuna lingua deve osare pronunciare e nessun orecchio deve ascoltare. Liu Xiaobo è stato condannato a 11 anni di prigione per “incitamento alla sovversione del potere dello Stato”. Era la quarta volta che veniva privato della libertà: 1989-1990, 1995-1996, 1996-1999. Malgrado il Nobel per la Pace (ottenuto nel 2010, nonostante la diffida del governo cinese) e le pressioni – tiepide, in verità – dei governi occidentali, che chiedevano fosse liberato per essere curato (aveva un tumore al fegato), è morto prigioniero, all’ospedale di Shenyang, sotto gli occhi della moglie Liu Xia. Una donna – poetessa e dissidente, agli arresti domiciliari, isolata dal resto del mondo e ridotta alla fame e al disagio mentale dal regime – che non vedeva il marito da quasi 10 anni.

Cos’altro ci dice questa morte? Che siamo ignavi. Tutti: esseri umani, cittadini, governi, nazioni, continenti. “Il coraggio, uno non se lo può dare”, si giustificava Don Abbondio. Forse. O forse no. Ognuno risponda a se stesso. Certo è che gli interessi sempre più interconnessi di questo mondo globalizzato, vengono non solo prima di libertà e democrazia (secondo il rapporto ‘Freedom in the World’ su 195 Paesi del mondo 49 – il 25% – ‘non sono liberi’ e 59 – il 30% – sono ‘parzialmente liberi’), ma persino prima di dignità e pietà.

La morte di Liu Xiaobo ci dice anche che siamo indifferenti. Non solo dell’altro non ci importa nulla, ma sarebbe molto meglio se girasse alla larga. È un fastidio, un ingombro, un ostacolo, un nemico. E va eliminato. Viviamo su una polveriera. Sotto di noi monta un odio che la politica non è in grado di ridurre né di contenere. Presto si scatenerà un tutti-contro-tutti nel quale l’unica legge sarà “mors tua vita mea”. Sicuri che staremo meglio? Se lo siete, allontanate pure il “piatto”. Altrimenti ringraziate quanti lo hanno “cucinato” per noi. Questa morte ci dice ancora un’ultima cosa: siamo ingrati. Pretendiamo che gli altri combattano per i nostri diritti – libertà, democrazia, benessere – e, poi, quando hanno bisogno di noi, ci voltiamo dall’altra parte. Chi si volterà verso di noi quando saremo noi ad aver bisogno di loro?

Gianni Fontana

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