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Il linguaggio che unisce

Acontatto con le “Chiese giovani” il Papa riscopre la sua radice di vescovo di strada e parla al cuore, come ha fatto in Mozambico, Madagascar, Maurizio.

Appena eletto al Soglio di Pietro, Jorge Mario Bergoglio si è descritto come il Papa che proviene “quasi dalla fine del mondo“. E in effetti la sua lontananza, anche linguistica e stilistica, dai leader politici mondiali appare colossale. Basta paragonare gli schietti e luminosi discorsi pronunciati, spesso a braccio, dal Pontefice durante il suo viaggio in tre Paesi dell’Africa australe con l’ormai consueta retorica aggressiva, plumbea e autoreferenziale dell’establishment planetario. I potenti della terra parlano un idioma divisivo, papa Francesco predilige espressioni inclusive, valorizzando in ogni circostanza ciò che unisce piuttosto che ciò che divide. Una scelta di fondo nella quale forma e contenuto coincidono. Rispondendo alle domande dei giornalisti sul volo di ritorno, è stato lo stesso Bergoglio a ribadire la continuità di linguaggio con i suoi predecessori: “Mi chiamano comunista, ma parlo come Wojtyla”. Molti oggi, soprattutto nel mondo neocon, vedono Giovanni Paolo II contrapposto a Francesco ma ciò, oltreché danneggiare il magistero di entrambi i pontefici, contraddice la realtà storica della Chiesa attuale, uscita dal Concilio Vaticano II con una visione non più verticistica ma sinodale dell’autorità papale. È stato lo stesso Pontefice un mese fa a specificare nella catechesi di un'udienza che “il linguaggio della verità e dell'amore è la lingua universale che tutti possono capire”. E “se tu vai con l'amore, la sincerità e la verità del tuo cuore, tutti ti capiranno, anche se non puoi parlare: basta una carezza che sia veritiera e amorevole”.

Il papato, insegnava un anziano cerimoniere vaticano, è come una veste: ogni Pontefice la adatta alla propria corporatura. Ovviamente la lingua parlata da ciascun Papa risente della sua storia, della sua formazione, del percorso che lo hanno condotto al timone della Chiesa universale. Dietro l’opzione di papa Francesco per una lingua non autocelebrativa c’è anche la lezione del suo predecessore Jospeh Ratzinger. In continuità con i suoi studi teologici, da prefetto dell’ex Sant’Uffizio e poi da successore di Pietro, il professore bavarese cercò incessantemente di togliere attenzione dalla figura del Papa in quanto persona per far sì che tutta l’attenzione fosse centrata su Colui del quale il Papa è il vicario. Un’impostazione che trovò conferma in ogni ferma decisione del suo pontificato: a cominciare dalla (apparentemente) meno rilevante scelta di non celebrare più personalmente le beatificazioni riservandosi soltanto le canonizzazioni all’abdicazione, che ha lasciato senza parole il mondo intero. Da plenipotenziario di Giovanni Paolo II nel campo della teologia, Joseph Ratzinger non sempre aveva condiviso alcuni risvolti personalistici e trionfalistici dell’era wojtyliana. Per esempio, troppo ridondante e sovraccarico di eventi di piazza, gli era sembrato il calendario delle celebrazioni del Giubileo del 2000. Ed eccessivamente marcata risultava, per la sua sobria e rigorosa sensibilità, l’attitudine dell’inner circle polacco di esporre continuamente Giovanni Paolo II nei più diversi contesti fino a farne quasi un Popestar, come titolò il vaticanista dell’Unità Roberto Monteforte il suo saggio sulle luci e ombre del pontificato wojtyliano. Una riservata e sempre rispettosa divergenza, più formale e di stile che di contenuti, affiorata poi subito dopo l’avvicendamento sul Soglio pontificio tra Wojtyla e Ratzinger.

Da Prefetto della Dottrina della fede, il teologo bavarese concepì e affinò un modo differente di condurre la Barca di Pietro. Vedendo i (molti) meriti e le (poche) lacune del pontificato wojtyliano, elaborò in un ventennio di fedele servizio dietro le quinte un’interpretazione diversa della figura e del ruolo di guida della Chiesa cattolica. L’ex Sant’Uffizio fu per lui un discreto e privilegiato punto di osservazione su cosa fosse da affinare e correggere nel papato contemporaneo. E così, divenuto Pontefice “suo malgrado” come commentò l'ateo devoto Giuliano Ferrara, Joseph Ratzinger mise immediatamente l’accento sul sottolineare che il Papa è innanzitutto e soprattutto Vescovo di Roma. Il 14 maggio 2005 per la prima volta il Pontefice non celebrò le beatificazioni, ma il giorno successivo presiedette l’ordinazione di 21 nuovi preti della sua diocesi, la diocesi romana. Un'indicazione sottile, ma lungimirante, soprattutto in vista dell’impegno ecumenico. Dalla caricatura di Panzerkardinal che ne avevano fatto dagli anni Settanta in poi certi ambienti progressisti, deriveranno invece l’errore storiografico più grave e l’interpretazione più fuorviante: inquadrare il suo pontificato sulla base di ciò che è stato e ha detto il cardinale Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Al carisma e alla straordinaria personalità di Giovanni Paolo II serviva il “software” teologico messo a disposizione dal teologo Ratzinger, il cui programma di governo da Pontefice sarà poi quello di riempire le chiese più che le piazze nell’intima e profonda convinzione che il Papa non sia un “supergovernatore” della Chiesa o un sovrano assoluto, bensì il servo dei servi di Dio. Un insegnamento tenuto bene presente da papa Bergoglio. Nei discorsi, nei gesti, nelle decisioni.

Giacomo Galeazzi

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