Quando da ragazzo pensavo ai santi li vedevo irraggiungibili e mi sembrava quasi un peccato dire: anche io voglio diventare Santo. Oggi che ho i capelli bianchi ho compreso che la santità non è irraggiungibile: è una condizione di vita che ogni cristiano dovrebbe avere chiara davanti a sé. Un’aspirazione che dovrebbe dare la forza, ogni giorno, di superare ostacoli, sofferenze, dolori. Una forza che non dovrebbe mai turbare la sua gioia. Perché il Santo è un credente felice, anche nella sofferenza, perché sa che essa è strumento che lo avvicina al Cristo.
Oggi posso dire di aver conosciuto due santi: Giovanni Paolo II, che ho incontrato più volte grazie alla mia professione e don Oreste Benzi. Mi legano a don Oreste tanti momenti. L’amicizia con lui è stato un regalo di don Aldo Buonaiuto, un giovane sacerdote che ho conosciuto da capo della Squadra Mobile e che da allora è il mio riferimento come padre spirituale. Fu lui a presentarmelo e fu amicizia a prima vista; quel prete grassottello, con la tonaca sempre lisa, lucida perché ormai consunta, sempre sorridente…Un giorno mi disse: “Mi raccomando Don Aldo. Proteggilo”. Mi commosse quell’affetto di padre da parte di un vecchio prete verso un altro prete più giovane. Da allora sento come figlio adottivo don Aldo che per me, quale confessore, è anche un padre.
Ogni tanto parlavo con don Oreste della mia vita e dei miei problemi e lui mi raccontava le sue preoccupazioni: i poveri, gli ultimi, quelle ragazze sulle strade che amava come sue figlie… Mi spronava ad aiutarle, a fare di più, a non rassegnarmi. Qualche volta don Oreste mi imbarazzava. Entrare in un’auto della polizia, consegnare agli agenti dei rosari annodati con fili e sentirgli dire “E ora recitiamo il Rosario” mi preoccupava. Pensavo tra me: se qualcuno si lamenta con il questore… se si comincia a dire: ma che tipo è questo capo di Squadra mobile che fa recitare il rosario ai suoi collaboratori?
Invece era straordinaria la disponibilità dei “miei” agenti a pregare, tra un intervento ed un altro sulla strada, per portare via le ragazze dalla schiavitù di una vita così triste, così infame. Don Oreste si fermava a parlare con le giovani, con il suo inglese stentato, il suo sorriso. Le abbracciava, le benediceva, cantava e pregava con loro e le convinceva a scappare. Solo quando vi fu il funerale di una ragazza di colore, torturata e uccisa per aver cercato di ribellarsi alla sua schiavitù, ebbi modo di vedere lo sguardo triste e severo di don Oreste. Definiva la prostituzione l’ingiustizia più vecchia del mondo. Le persuadeva a denunciare gli aguzzini, a fidarsi della Polizia. Credo che le Forze dell’ordine debbano tanto a don Oreste e oggi a don Aldo per il supporto offerto allo Stato in tema di repressione della tratta e dello sfruttamento degli esseri umani. Ragazze spaventate, torturate, destrutturate psicologicamente, decidevano e decidono di scappare da organizzazioni criminali feroci: non è facile. Un piccolo miracolo di fiducia e d’amore.
Sono tanti gli episodi che conservo di don Oreste; mi sembra così vicino da poterlo vedere anche adesso, mentre scrivo. Lo immagino durante i nostri viaggi, quando la stanchezza prendeva il sopravvento mentre parlava, si addormentava per poi ricominciare il discorso nello stesso punto appena svegliatosi. In uno dei nostri ultimi incontri mi disse: “Pensa a don Aldo…”. In questi anni ho cercato di “pensarci”… Ma a dire la verità sono state di più le volte che lui ha pensato a me, con quella bontà e quella discrezione nel dare che ha ereditato proprio da don Oreste. E con quel suo sorriso che diventa tristezza quando è a contatto con la malvagità e l’ingiustizia.
L’ultima volta che ho visto don Benzi è stato poche ore dopo che aveva lasciato la vita terrena. Una telefonata nella notte, di don Aldo, mi avvisò che ci aveva lasciati. Avevo atteso l’alba per partire per Rimini e nel dormiveglia l’ho sognato: mi veniva incontro, camminando su un prato verdissimo, sorridente. “Don Oreste! Ma non sei morto?”. “No Italo, non sono morto. Pensa a don Aldo, quel ragazzo non mangia mai…”. Queste furono le sue esatte parole. Appena il tempo di raccontare il sogno a Maria Giovanna e partimmo. Arrivati a casa sua, salii in camera, mentre stavano vestendo don Oreste per portarlo in chiesa, tra i suoi amici: alcuni potenti e ricchi, tantissimi poveri, gli ultimi, i suoi figli, che lo stavano aspettando per un saluto. Nella suo appartamentino una vecchia poltrona su cui spesso si addormentava pregando e, in cucina, un pentolino, tutto bruciacchiato, con del riso avanzato. Ci guardammo con mia moglie e non riuscimmo a tenere le lacrime. Ci aveva lasciato, ma non per sempre. Un Santo. Con lui la mia vita è cambiata, sia quella professionale perché da capo della squadra mobile riuscii a parlare il linguaggio degli emarginati e degli sfruttati, che spirituale, perché credo di aver, finalmente, tramite don Oreste, compreso che il mio Dio è Amore, misericordia, compassione, carità.