Editoriale

L’orologio della Torre di Giaffa

La crisi politica e costituzionale che agita le fondamenta lo Stato d’Israele – non illudiamoci – tornerà a manifestarsi. Non possiamo dire quando, ma tornerà. Troppo profonde le sue cause, troppo radicate, per gridare allo scampato pericolo e riprendere tutto come se niente fosse. Non si illudano nemmeno i molti oppositori di Netanyahu, che hanno vinto questa battaglia di diritto e anche di civiltà, perché se una democrazia come quella israeliana è costretta a confrontarsi con tanta determinazione su alcuni elementi basilari della convivenza umana, vuol dire una cosa sola: che la democrazia rischia, e rischia grosso.

Il fatto è che, al di là del ruolo ben poco pacificatore giocato dagli elementi ultraortodossi della società israeliana, e al di là del fatto che il premier abbia voluto innestare la retromarcia e la cosa non gli è certo congeniale, sono venuti al pettine una serie di nodi finora irrisolti, che vanno in fondo alla natura stessa dello stato ebraico. Che lo scontro sia stato focalizzato sulle basi stesse del sistema giuridico nazionale la dice assai lunga: il sovranismo consustanziale ad una figura come quella di Netanyahu, unito all’idea illiberale della democrazia sospinta da uno spostamento a destra dell’asse politico nazionale, non potevano che portare al tentativo di comprimere le libertà individuali in favore dei poteri esecutivi. C’è però dell’altro. Netanyahu, per salvarsi non solo politicamente, ha dovuto accettare un rapporto ormai sbilanciato a sfavore del suo stesso partito nei rapporti con una destra la quale, più che ortodossa, può essere definita nazionalista ed etica. La tenuta del governo e l’avvenire politico sono stati garantiti solo grazie ad un patto in cui a repentaglio è stata messa la natura della stessa democrazia. Non poteva durare.

La riforma della giustizia così come era stata presentata trova la sua premessa in un’altra legge, quella del 18 luglio 2018 che, per la prima volta nella storia di Israele, definisce ufficialmente lo stato come “la casa nazionale del popolo ebraico“. In altre parole, identifica nazione e Stato, popolo ebraico e nazione, Stato e popolo ebraico, escludendo dal convivere civile chi non appartenga alla sua comunità, sia questo per nascita come per scelta. Un principio in base al quale il sovranismo più duro è andato a divenire essenza della stessa unità nazionale, erigendo un muro tra le varie comunità (divise per origine, religione, convincimenti politici) più alto di quello che corre lungo il confine con l’Autonomia Palestinese.

In altre parole: la fine di uno Stato moderno, l’agonia di una democrazia plurale. È la fermata finale di un percorso che va al di là della stessa persona di Netanyahu, la cui biografia politica è di per sé sufficientemente esplicativa. Va ancora più in là della nascita dello Stato d’Israele, le cui radici (non dimentichiamolo mai) affondano anche nella Shoah. Arriva ad un giorno del 1918, quando le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale sfilarono per le vie di una Gerusalemme appena strappata ai turchi. Il primo gesto del protettorato britannico, scrivono gli storici, fu l’abbattimento dell’orologio posto sulla Torre di Giaffa, quella che tutti ancora adesso attraversano per entrare in città dalla parte occidentale. Fu quel gesto che, scrivono ancora gli storici, avviò la parcellizzazione della Città Santa in rioni etnico-religiosi, disfacendo quell’intersecarsi di strade e di destini tra i suoi abitanti, fossero essi ebrei cristiani o musulmani. Fu tolta, con l’ora segnata da quell’orologio, la visione comune del tempo, che i musulmani ripresero a misurare con il richiamo dei muezzin, i cristiani con le loro cipolle d’argento e gli ebrei con le loro pendole. Ognuno per conto suo. E se il tempo non è più un valore comune, presto o tardi in comune resta molto poco. Nemmeno una decina d’anni e ripresero gli scontri violenti.

In fondo quelle centinaia di migliaia di persone che, fatto senza precedenti nella loro casa, sono scese in piazza per protestare contro la riforma della giustizia, questo chiedevano: un nuovo orologio sulla Torre di Giaffa. Per ritrovare qualcosa di comune, qualche regola certa per tutti. E se proprio non si può con nient’altro, ci si provi almeno con il lento, ma costante, movimento delle lancette.

Nicola Graziani

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