Editoriale

Il Coronavirus tra cielo e terra

Viviamo momenti di preoccupazione e di paura per il contagio del Coronavirus: per le morti che sta provocando, per lo stress dei coraggiosi operatori sanitari, per le conseguenze economiche, per l’incertezza sul futuro. Anche i membri delle nostre comunità cristiane soffrono, private dell’immenso dono dell’Eucaristia e della dimensione comunitaria della nostra fede. Si tratta di un tempo prolungato di “digiuno” in un tempo di Quaresima che diventa esperienza di prova, di smarrimento, di solitudine, ma anche di fiducia nella misericordia di Dio. Il prolungato “digiuno eucaristico” richiesto a molti fedeli non può coincidere con un “digiuno” della fede.

Questa Quaresima può diventare un’occasione di grazia per sentire la nostalgia e il desiderio di Dio, per ricercare l’essenzialità della vita e avvertire la presenza di Gesù Cristo, che cammina accanto a noi verso la luce trasfigurante della Pasqua. Se da cittadini siamo invitati a seguire le norme prudenziali da parte delle Autorità civili e dei Vescovi, per evitare il rischio del contagio, da cristiani siamo chiamati a leggere anche la pandemia del Covid-19 alla luce del Vangelo e a intensificare le nostre preghiere a Dio, che è il Dio della vita e della risurrezione, che non ci abbandonerà neppure nel momento della malattia e della morte, anche se noi lo dovessimo abbandonare. La fede che si esprime nella preghiera ha una sua forza, con cui possiamo affidarci al Signore perché ci liberi dal male e ci aiuti a combattere la malattia servendoci di tutti i contributi della scienza.

Nel dibattito di questi giorni abbiamo assistito a due opposti estremismi: il fideismo e lo scientismo, il sostenere che basta l’acqua benedetta o una processione per sconfiggere il male o che ormai la scienza ha reso del tutto irrilevante la fede e le pratiche religiose per dare senso alla vita umana.  I cristiani – come ci ha ricordato la CEI- citando la lettera A Diogneto – “Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo”. Non si può opporre la salvezza eterna dell’anima alla salute terrena del corpo. Una preghiera liturgica ci invita ad un sano realismo, chiedendo a Dio “di godere sempre la salute del corpo e dello spirito e per la gloriosa intercessione di Maria santissima, sempre vergine, salvaci dai mali che ora ci rattristano e guidaci alla gioia senza fine”

Questo sano realismo che non oppone la terra al cielo, i rimedi umani dettati dalla scienza e dalla prudenza e le manifestazioni della fede, l’ho trovato nel comportamento di un mio predecessore nella arcidiocesi di Monreale. L’arcivescovo Girolamo Venero, che esercitava contemporaneamente il servizio ecclesiale e il potere civile e penale, nel 1625 in occasione di una malattia contagiosa che interessò gran parte della Sicilia, se da una parte imponeva in modo severo l’isolamento igienico e le quarantene, dall’altra parte raccomandava la pratica delle “quarantore” e il “precetto pasquale” e organizzava una solenne processione del Crocifisso. Nei bandi emanati dall’arcivescovo si minacciava la pena di morte per chi fosse entrato o uscito dalla città senza i dovuti controlli, si ordinava di tenere pulite ed odorose le case, si proibiva soprattutto ai bambini e alle donne di uscire di casa e di girare per la città, si raccomandava di tenersi almeno a dieci palmi di distanza dalle persone contagiate, si controllava perché i generi alimentari avessero un prezzo giusto e modico. Di questo sano realismo ispirato al “buon senso” di manzoniana memoria differente dal “senso comune” abbiamo tutti bisogno.

mons. Michele Pennisi

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