Editoriale

I punti da migliorare affinché ci sia un buon lavoro per tutti

La questione del lavoro continua ad essere nel fondo delle preoccupazioni della politica italiana. Non mancano i riferimenti nelle interviste su un punto o su un altro, ma si tratta prevalentemente di valutazioni strumentali che attengono spesso le banalità del sentito dire, delle raschiature di barile di tempi andati, di posizioni sedimentate dalla sciatta lunga stagione del populismo. Difficilmente si ha la possibilità di mettere a fuoco l’insieme della questione lavoro, che come si dovrebbe sapere, è come un corpo umano: un complesso organismo costituito da elementi interdipendenti. Ed infatti l’occupazione non si incrementa attraverso la riduzione degli obblighi contributivi come è avvenuto senza alcuna conseguenza se non per i fondi previdenziali, ma dalla crescita della competitività del sistema Italia e dall’attrattività del prodotto dell’azienda nel mercato. Per le aziende è un piccolo sollievo pagare meno, ma non al punto da spingerle ad assumere maestranze in assenza di commesse.

Lo stesso vale per il salario che ha raggiunto livelli mai toccati nell’ultimo trentennio, e che va aumentato pena l’ulteriore impoverimento dei lavoratori dipendenti. Non può che svilupparsi che in un contesto di governo effettivo dei fattori dello sviluppo, con tasse e contribuzioni sociali gravanti sulle buste paga molto più contenute, ed una contrattazione orientata alla maggiore produttività per la distribuzione equa dei guadagni. Una solida preparazione professionale dovrebbe essere in cima ai pensieri di ciascuno, ed allora perché istruzione e formazione hanno l’andatura delle lumache rispetto al procedere veloce delle nuove e mobilissime frontiere del digitale che pervadono il lavoro di questa epoca? E quale è il motivo che periodi di cassa integrazione o di redditi di cittadinanza non prevedono l’obbligo di aggiornamento professionale?

La somma di queste disfunzioni è il freno costoso della lenta modernizzazione nelle produzioni, e la sconcertante coesistenza tra le centinaia di migliaia di posti di lavoro non coperti in mancanza di professionalità adeguate all’economia digitale, nel mentre una folla di giovani di disoccupati senza istruzione e formazione ed altri più anziani progressivamente messi da parte dal cambiamento. Le proposte superficiali che si sentono sul salario minimo segnalano più propaganda modista che attenzione ai salari poveri, quelle sulla riduzione del lavoro, un ballon d’essai per apprendisti stregoni, quelle delle politiche attive del lavoro necessitano misurare però alla realtà, dovranno discendere da opinioni e progetti che rispondono ai quesiti base su esposti. Le ultime dichiarazioni del Ministro del lavoro Calderone sul sostegno da fornire alla contrattazione di secondo livello a sostegno della crescita della produttività lasciano ben sperare sulla necessità di adottare una linea decisa su questo aspetto da sempre trascurato.

Il governo ha già dato un segnale sul punto in questione portando dal 10% al 5% dell’imposta sostitutiva IRPEF e delle addizionali regionali e comunali, ma solo per il 2023. Ma ora bisognerebbe rendere stabile l’agevolazione allargando la platea a tutti i lavoratori. Segnare con forza la decisione di premiare molto più la produttività ed il merito di chi lavora per creare un clima nuovo basato sul buon lavoro che è ben pagato. Quando ognuno di noi vivrà in questo clima, sarà più facile legare il lavoro con l’istruzione e la formazione, il lavoro con una buona ed efficiente protezione sociale, il lavoro con buoni salari e ed una buona economia.

Raffaele Bonanni

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