Editoriale

I conti che non tornano nelle buste paga

Con più dell’otto per cento di inflazione i lavoratori dipendenti si vedono ridotto il loro salario già di per sé striminzito. L’inflazione è come un ladro che ti toglie un qualcosa di cui ti accorgi della sua sparizione dopo. Non è un caso che il dibattito lo consideri un fatto residuale che non fa audience, non importante per partiti politici alla eterna caccia di attrarre elettori. Eppure una busta paga mensile di mille e 300 euro, ricevuta in costanza della attuale inflazione, vale meno di un centinaio di euro a fronte di rialzi di mutui, utenze, prezzi di beni al supermercato ed alla pompa di benzina. Per rimediare a questo disastro ci si affida alla misura in atto della BCE di rialzo ulteriore dei tassi di interessi, che contraendo la spesa pubblica provoca una riduzione della inflazione, che è la misura classica per spegnere l’incendio inflativo.  Ma pur abbassando gli effetti collaterali, per noi italiani che abbiamo circa duemila e ottocento miliardi di debito, con un aumento medio del 3%, ci ritroveremo con un debito accresciuto abnormemente di circa 75 miliardi in più: un terzo del finanziamento UE per il nostro PNRR. Dunque, toglierebbe il macigno inflativo sui mutui, ma ne troverebbe un altro sulle spalle provocato dai tassi d’interesse sugli stessi mutui, dalla riduzione di sanità, scuola, assistenza, previdenza, oltre ai danni che potrebbero provenire dal rischio di una eventuale recessione.

Insomma è proprio l’Italia che lavora a subire i colpi mortali, quella parte che fa reddito nazionale, che nonostante tutto riesce molto meglio dei francesi e dei tedeschi a tornare ai livelli di fatturato pre-covid con 164 miliardi di euro con il 2,6% del fatturato del 2019, mentre non è così per la Germania per lo stesso periodo ancora arretrata a meno 5,7%, come i nostri cugini d’oltralpe collocati meno 4,9%. Ed allora la questione dei bassi salari che stringe il collo dei lavoratori da anni, dovrà essere collocata tra le primissime emergenze. Che senso hanno le bandierine del salario minimo e dei voucher, mentre tutti i lavoratori dell’industria ed agricoltura, dei servizi e quelli pubblici, da un decennio e più vengono spinti in gran parte nell’area dei “poor workers” a causa di tassazioni locali e nazionali, dirette ed indirette, ed a causa di impostazioni contrattuali timide quando non ostili all’ancoraggio salariale alla crescita della produttività, alla scelta scellerata di offrire assistenza anche ai giovani anziché un poderoso coinvolgimento nella formazione per il miglioramento delle capacità professionali.

C’è da sperare che il presidente Meloni apra una discussione coraggiosa e responsabile su questi temi per suscitare responsabilità anche nei soggetti sociali e partiti di opposizione per procedere a scelte forti per rafforzare il salario con riduzioni fiscali e con la scelta altrettanto forte di premiare la produttività su una parte da rendere più larga della base salariale. Si vedrà in questo modo chi davvero vuol padroneggiare le emergenze rimettendo in discussione la confusione deresponsabilizzante che sta penalizzando la migliore Italia danneggiata dal populismo e cinismo, sempre pronti a speculare sui danni da loro stessi provocati. Rimettere al centro l’attenzione su chi produce, smettendo la politica dei bonus e della distribuzione assistenziale senza finalità utili per il lavoro, dovrà diventare il discrimine vero culturale e politico per ridare all’Italia il suo posto tra i grandi paesi produttori.

Raffaele Bonanni

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