Gratitudine e speranza. Le due parole sulle quali Papa Francesco, nell’omelia dei Primi Vespri della Solennità di Maria Madre di Dio, condivide una riflessione che poggia le sue basi sulla fede stessa. Perché è grazie a essa che, in questo momento storico, è possibile vivere rifuggendo “una mentalità mondana”. La fede in Gesù “dona un modo nuovo di sentire il tempo e la vita“, basato proprio sulla gratitudine e la speranza. L’atto del ringraziamento, centrale nella preghiera del Te Deum, è solo all’apparenza naturale. Specie in coincidenza con l’ultimo dell’anno, quando la speranza per il futuro è bilanciata con la gratitudine per quanto appena vissuto: “Ma, in realtà, la gratitudine mondana, la speranza mondana sono apparenti; mancano della dimensione essenziale che è quella della relazione con l’Altro e con gli altri, con Dio e con i fratelli. Sono appiattite sull’io, sui suoi interessi, e così hanno il fiato corto, non vanno oltre la soddisfazione e l’ottimismo”.
La liturgia dell’ultimo dell’anno, che ha il suo momento culminante proprio nell’inno Te Deum laudamus, consegna invece un’altra atmosfera: “Quella della lode, dello stupore, della riconoscenza”. Ciò che il salmo definisce “un meraviglioso scambio”, ci permette di entrare “nei sentimenti della Chiesa. E la Chiesa, per così dire, li impara dalla
Vergine Madre”. Maria prova l’esperienza di qualsiasi madre, nonostante sappia chi sia quel Bambino: “Eppure è lì, respira, piange, ha bisogno di mangiare, di essere coperto, accudito. Il Mistero dà spazio alla gratitudine, che affiora nella contemplazione del dono, nella gratuità, mentre soffoca nell’ansia dell’avere e dell’apparire”. La Chiesa, dunque, “impara dalla Vergine Madre la gratitudine”, così come la speranza.
Maria è colmata di amore e di grazia. Ed è per questo che, in lei, emergono i sentimenti di fiducia e speranza dai quali la fede trae nutrimento. Non ottimismo ma fede “nel Dio fedele alle sue promesse” che “assume la forma della speranza nella dimensione del tempo”. E il cristiano, come Maria “è un pellegrino di speranza”. Un’immagine che animerà il Giubileo del 2025, al quale prepararsi nel segno della testimonianza, come comunità ecclesiale e civile: “Stiamo operando, ciascuno nel proprio ambito, affinché questa città (Roma, ndr) sia segno di speranza per chi vi abita e per quanti la visitano?”. Una domanda fondamentale nel momento in cui le porte della speranza si aprono congiuntamente a quelle dell’accoglienza. Rivolte a tutti, senza distinzioni di nazionalità, cultura o religione. Né di età o autonomia fisica.
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