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Ossa in una scatola e memoria dimenticata: la triste storia del milite ignoto

Lui, la sua guerra la stava combattendo in montagna ma non era un partigiano. E, come tanti, durante i combattimenti ha perso la vita. Era un alpino, uno di quei soldati coraggiosi che le loro campagne le affrontano nella neve, fra i torrenti impetuosi, nelle difficoltà d’alta quota. E quella che combatteva non era una battaglia qualsiasi: era la Grande guerra. Il primo dei due catastrofici conflitti mondiali, l’unico fino a quel momento ad aver coinvolto, indifferentemente, eserciti schierati e popolazione civile, oltre che il più grande e sanguinoso mai affrontato dall’umanità, senza lontanamente immaginare che, di lì a pochissimi anni, ve ne sarebbe stato un altro peggiore. Ma l’ignoto alpino, come i suoi contemporanei, questo non lo sapeva e mai lo avrebbe saputo. La sua guerra finì lì, a non più di qualche metro dalla linea austriaca, sotto la Cima di Costabella, non molto lontano dalla Marmolada. E lì ha atteso un secolo, anno più anno meno, prima di essere ritrovato. Di lui restavano le ossa, di ciò che indossava uno scarpone. Un nuovo milite ignoto, destinato a rimanere tale. Ma, di certo, nessuno poteva immaginare che, a distanza di ormai due anni dal suo ritrovamento, le sue spoglie giacessero ancora in una scatola, in qualche archivio della stazione dei Carabinieri di Modena, dove erano state trasportate. Incredibile? Sconvolgente? No, semplicemente burocratico.

Il ritrovamento

A far emergere l’insoluta questione è stato il quotidiano “Repubblica”, con il quale si è confidato lo “scopritore”, Livio Defrancesco: “Ero sotto la cima di Costabella a fare manutenzione dei sentieri e ho visto delle scarpe chiodate, tipiche di quella guerra in montagna. Le ho prese in mano e ho sentito che dietro venivano i piedi, la gamba, il corpo. Le ossa erano perfette, grandi più del normale”. Un femore, per l’esattezza, l’osso che avrebbe fatto stimare l’altezza del giovane soldato a non meno di 185 centimetri. Un gigante per i tempi, probabilmente ucciso da una fatalità più che da un proiettile nemico: “L’elmetto era spezzato. Era stato chiaramente portato via da una valanga o da una frana”. La storia della sua morte è dunque piuttosto chiara (probabilmente avvenuta alla fine del difficile inverno del 1916, durante il quale caddero qualcosa come 18 metri di neve sulle Dolomiti). Un mistero, invece, quella della sua breve vita, conclusa fra i monti dell’alta Italia e, ora, priva di quell’omaggio che, pure, sarebbe dovuto.

Nessun riposo

Se era questo il suo destino, verrebbe quasi da pensare che la natura delle Dolomiti, la quiete del bosco e l’aria fresca dei monti fossero un migliore luogo di riposo. Invece le sue ossa sono state recuperate, trasportate in città, lontane dal fronte, pronte per essere inumate, a imperitura memoria delle eroiche gesta dei nostri giovani soldati impegnati nell’inferno della Grande guerra. Niente di tutto questo. Di chi la responsabilità? Probabilmente della sezione del ministero della Difesa tenuto a occuparsi della sua sepoltura, incastonata ormai in un percorso burocratico che non si distingue certo per rapidità dei procedimenti. Risultato: le sue spoglie non riposano e, a questo punto, chissà quando riposeranno.

Mattia Damiani

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