Attualità

Antisemitismo, Jeremy Corbyn sospeso dai laburisti

A distanza di quasi un anno dalle elezioni britanniche, la Brexit è ancora lì, più fuori che dentro i binari costruiti per far andare tutto bene. E Jeremy Corbyn è ormai fuori dalla segreteria di partito da aprile 2020. Il periodo trascorso a tenere le redini dei Lab, però, torna nuovamente a prendersi le cronache. L’argomento stavolta è l’antisemitismo e il rapporto Equality and Human Rights Commission, inchiesta che riporta a galla le accuse rivolte al partito proprio quando era Corbyn a guidarlo. Dicendo che non fu fatto abbastanza per smentirle. E individuando anche delle interferenze da parte di alcuni membri del partito per mettere a tacere le critiche.

E Corbyn, sospeso dai laburisti, va giù duro: “Chiunque affermi che non c’è antisemitismo nel Partito Laburista si sbaglia. Certo che c’è, come in tutta la società, e a volte è espresso da persone che pensano a se stesse come persone di sinistra. Le persone ebree del nostro partito e di tutta la comunità avevano ragione ad aspettarsi che ce ne occupassimo, e mi rammarico che ci sia voluto più tempo del dovuto per cambiare le cose”.

La caduta di Corbyn

L’ultima puntata, 12 dicembre 2019. Giorno, anzi, serata del trionfo di Boris Johnson alle elezioni nel Regno Unito e del naufragio totale di cinque anni di leadership. Non dell’allora neo-capo dei Tory ma del suo principale rivale. O che almeno si riteneva tale all’epoca. Jeremy Corbyn fu il grande sconfitto, pagando tutto quello che l’affaire Brexit poteva far pagare a chiunque non fosse ritenuto l’uomo giusto per tirare fuori Londra dalle sabbie mobili. Quell’uomo non è stato il leader laburista, né il suo partito è stato ritenuto adatto a navigare nel tempestoso mare che separa(va) la Gran Bretagna da Bruxelles. Nemmeno dopo gli ultimi mesi di Theresa May, impattata per tre volte sul muro di Westminster e autrice di un passo indietro che ha aperto a Johnson e ai falchi la via della Brexit alle condizioni dei brexiteers.

Addio alla leadership

Un quadro in cui l’oscillazione di Corbyn tra una Brexit “laburista” e la strategia del nuovo referendum ha finito per logorare l’elettorato britannico. Che pure, un minimo di chances forse le avrebbero concesse a un “non Tory” come Corbyn, che con May aveva intavolato persino dei colloqui per cercare di garantire una maggioranza utile a condurre in porto il processo d’uscita. Ipotesi naufragata dopo pochi giorni. Opportunità che i britannici avrebbero concesso sì, ma alla luce di un determinato programma. E quello lab, nonostante il famigerato “red book” stilato da Corbyn, non ha mai convinto del tutto. Rendendo a quel punto inevitabile la fine della sua leadership, certificata da un flop elettorale che appariva chiaro già prima dello spoglio definitivo delle schede. Downing Street a Johnson, timone della Brexit pure e labour party mai così lontano dall’insidiare i rivali.

Damiano Mattana

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