45 anni fa la guerra fredda cominciò a fare meno paura. Il 1° agosto del 1975 a Helsinki i 35 Stati partecipanti alla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, Csce, siglavano l’Atto finale, ancora oggi importante acquisizione della diplomazia internazionale.
C’erano quel giorno tutti i più grandi leader del mondo, dell’Est e dell’Ovest. La Santa Sede fu protagonista del processo che dalla Conferenza di Helsinki è approdato nel 1995 alla creazione dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Da allora è sinonimo di una politica estera e la diplomazia pontificia vi partecipò per un lungo periodo pienamente. Una strategia basata sul realismo e sul dialogo per ottenere “cose possibili e oneste”, come sintetizzò a 30Giorni il cardinale Achille Silvestrini, ministro degli esteri vaticano e rappresentante della Santa Sede alla Conferenza di Helsinki su mandato di Paolo VI.
Si trattava di dare respiro alla Chiesa in modo che potesse resistere “fino a…”, cioè fino al momento del cambiamento politico. Questa era l’ostpolitik quando nel ’78 è stato eletto Giovanni Paolo II. “Il Papa polacco conosceva la dichiarazione di Helsinki e la utilizzava in Polonia per chiedere la libertà religiosa– spiegò Silvestrini- L’Atto finale portava la firma dell’Unione Sovietica, e Giovanni Paolo II ne faceva uno strumento di rivendicazione. Del resto, anche Charta 77 in Cecoslovacchia chiedeva la libertà in base all’Atto finale di Helsinki. Ma papa Wojtyla naturalmente diede un impulso nuovo, diverso“.
Secondo Silvestrini, in mancanza di un trattato di pace dopo la Seconda guerra mondiale, s’era andati avanti in una situazione “di fatto”. Il processo di dialogo politico che culminò a Helsinki voleva stabilire un contesto di relazioni “possibili” tra Est e Ovest, e lo fece col noto Atto finale, che conteneva dieci principi condivisi da tutti gli Stati partecipanti. In pratica a Helsinki s’era creato un equilibrio fra le esigenze dell’Est e dell’Ovest. Ad esempio, se da un lato l’affermazione dell’inviolabilità delle frontiere e dell’integrità territoriale degli Stati rassicurava Mosca. Dall’altro impediva ai sovietici ulteriori espansioni, escludendo il rinnovarsi di episodi come i carri armati russi in Ungheria o gli interventi in Cecoslovacchia. Difatti, dopo il ’75 non c’è stata più nessuna invasione sovietica in Europa.
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