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“NON CHIAMATECI SCARTATI”

Che fine fanno un malato di Aids rimasto solo ormai alla fine della corsa, un tossicodipendente che è uscito dal tunnel della droga, una mamma col suo neonato che deve scontare la pena per un furto, una donna senza lavoro e senza casa a causa della sua depressione?

Ci sono luoghi in cui anche gli uomini e le donne che rischiano di essere “scartati” dalla società trovano una casa, il calore di una famiglia e ricostruiscono quei legami significativi nella reciprocità, aiutandosi l’un l’altro – possiamo dire letteralmente – anche fino alla fine. Di qualunque etnia e religione siano, non importa. È il caso della Casa di accoglienza per adulti della Comunità Papa Giovanni XXIII denominata “San Giovanni Battista” e sviluppatasi nella campagna intorno a Castel Maggiore.

Oggi festeggia alla presenza del Vescovo di Bologna, mons. Zuppi, del Presidente della Comunità Giovanni Paolo Ramonda e del Sindaco di Castel Maggiore, Belinda Gottardi, vent’anni dalla nascita. Alle sue origini, nel lontano 1997, c’è la storia di una giovane infermiera che, seguendo le parole del fondatore don Oreste Benzi “dare una famiglia a chi non ce l’ha” per “ri-generare nell’amore”, accetta la proposta di accogliere malati di Aids in fase terminale inviati dall’Asl di Bologna.

Come Giampiero Bonazzi, colonna della casa nei primi anni e ora suo “angelo custode”, che in un’intervista del 2001 raccontò di sé e della sua malattia senza vergogna, con la coscienza di non essere più solo. “Lavoravo alla Cecchignola al Ministero della Difesa. Un giorno il Maggiore è passato vicino a me e mi ha guardato. Gli ho chiesto: ‘Perché guardi me?’. Aveva saputo della malattia e da allora non l’ho più visto! Mi chiamo Giampiero Bonazzi, classe ‘58, e sono stato licenziato dal mio posto di lavoro, da molti tanto ambito, e improvvisamente mal giudicato e tagliato fuori da tutti a causa dell’Hiv. Poi quando da Roma sono ritornato nella mia città, a Bologna, ho conosciuto don Benzi e la mia vita è cambiata. Sono nella Papa Giovanni XXIII da sei anni ormai. Ho il destro (piede) che non va bene; il sinistro sì. Senza la carrozzina non mi muovo per niente. Se smetto di prendere di quelle bianche (farmaci antiretrovirali) sono di un gonfio… Poi ho una gialla e una blu (medicine) se smetto di prenderle… sono guai! Ma sono proprio contento di essere qui sai perché?… Perché fuori fa un freddo!“.

E per tanti altri invece questo calore umano ha portato passo dopo passo all’autonomia: così come per miracolo uno è diventato pizzaiolo, l’altra ha imparato a fare la sarta, l’uno lavora in una Cooperativa di giardinaggio, l’altro è diventato punto di riferimento per i nuovi accolti (dal 1997 ad oggi più di 800), lasciando non poche volte a bocca aperta – come capita spesso nelle Case di accoglienza della Comunità sparse in tutta Italia (una cinquantina circa) – assistenti sociali, operatori del Servizio per le tossicodipendenze, psicologi e psichiatri dei Centri di igiene mentale. Tra questi il dott. Giorgio Magnani, Psichiatra del Centro Salute Mentale di Carpi, Ausl di Modena, che presenterà un suo intervento nel dibattito sul tema Adulti fragili e comunità accoglienti… oltre la cultura dello scarto.

Dottor Magnani ritiene possibile un percorso di reintegrazione dei soggetti psichiatrici in mezzo a persone con altre problematiche, mamme con bambini provenienti dal carcere o donne vittime di tratta? Non sono preferibili strutture più settoriali? Non è addirittura pericoloso mescolare chi per molti andrebbe ancor più ghettizzato?
“Si assolutamente. Mi occupo da tanti anni di gruppi e preferisco lavorare con gruppi disomogenei ovvero quelli composti da persone diverse per genere, età, status, problemi, patologia, provenienza ecc. Nella mia esperienza, la diversità è un fattore importante per l’arricchimento reciproco. Va anche detto che la diversità è un elemento che fa parte della nostra normalità: una famiglia o una comunità formata da individui tutti della stessa età o dello stesso genere sarebbero una ben strana famiglia o una ben strana comunità. È evidente che occorre anche molta attenzione nel rispettare le differenze, nel permettere la libertà degli individui e nel mantenere un sufficiente livello di coesione. Le strutture settoriali non favoriscono lo sviluppo del pensiero e corrono il rischio di essere emarginanti”.

È proprio vero che il contesto familiare può far uscire dall’isolamento e addirittura aiutare nell’autonomia anche chi ha una doppia diagnosi?
“Può sembrare strano ma per alcune persone come chi ha una doppia diagnosi (una patologia psichiatrica associata all’abuso di qualche sostanza) una sorta di famiglia adottiva, meglio se una piccola comunità improntata ad uno stile di vita familiare può offrire una “esperienza emozionale correttiva” che sarebbe impossibile nella famiglia di origine. Questo perché i legami con i propri familiari alle volte sono così stretti da non permettere nessuna modificazione”.

Nella Casa di accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII gli attuali responsabili Giovanna Boccardo e Alberto Zucchero sostengono che “tre sono le parole chiavi fondamentali nella vita quotidiana: accoglienza, speranza e aiuto reciproco nella diversità”. Ma per le persone che si rivolgono ai vostri servizi queste case non sono invece considerate comunità “soffocanti”?
Quando faccio sedute di terapia di gruppo inizio sempre da una fase di accoglienza e il mio obiettivo è di restituire al gruppo e agli individui che lo compongono speranza attraverso il confronto tra le differenze. Ogni partecipante può sperimentare che se è stato accolto e c’è speranza per un altro del gruppo (che è così “strano”), potrà essere accolto e ci sarà speranza anche per lui.

Chiara, ex tossicodipendente con problemi psichiatrici, ha scritto “ho voglia di fare delle camminate che durano tanti chilometri per sfogarmi e per riprendermi tutti quegli anni persi nel nulla… ho voglia di essere felice perché me lo merito”. Quanto sono importanti nell’adulto con disagio lo sport, la narrazione creativa, l’arteterapia per superare le profonde fragilità e tornare ad “essere felice”?
“Chiara è fortunata poiché riesce ad usare le parole riempendole di significato. Spesso questo processo è difficile e allora le artiterapie, lo sport, la narrazione ma anche la terapia della quotidianità (i lavori domestici) possono diventare strumenti di comunicazione e di facilitazione che aiutano a transitare verso la parola”.

Irene Ciambezi

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