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‘Ndrangheta, opera del maligno

“Far parte consapevolmente della ‘ndrangheta significa, in sostanza, rifiutare concretamente il Vangelo e il suo segno storico che è la Chiesa”. Così la conferenza episcopale calabra ha diffuso la nota Pastorale con la quale denuncia con forza la presenza della criminalità organizzata nella regione. A sei mesi dalla scomunica di papa Francesco pronunciata a Sibari, e riprendendo i documenti che i vescovi calabresi hanno elaborato negli ultimi 70 anni, i vescovi ribadiscono in modo netto che la ‘ndrangheta è «il male assoluto», «l’antistato», «l’anti-religione», «una struttura pubblica di peccato, perché stritola i suoi figli. È contro la vita dell’uomo e contro la sua terra. È, in tutta evidenza, opera del male e del Maligno».

Dodici pagine di testo presentate a Reggio Calabria dal presidente dei Vescovi calabresi, mons. Salvatore Nunnari, arcivescovo metropolita di Cosenza, per definire la ‘ndrangheta come opera del Male.  “Non c’è, e non ci può essere commistione – si afferma – tra una fede professata e una vita disorientata dall’appartenenza ad organizzazioni criminali. La ‘ndrangheta non ha nulla di cristiano. Attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro, si pone come una forma di religiosità capovolta, sacralità atea e negazione dell’unico vero Dio.

E’ un’organizzazione criminale fra le più pericolose e violente. Utilizzando vincoli di sangue, o costruiti attraverso una religiosità deviata, nonché lo stesso linguaggio di atti sacramentali (si pensi alla figura dei ‘padrini’), i boss cercano di garantirsi obbedienza, coperture e fedeltà”. Nelle parole dei pastori della Chiesa calabrese viene sottolineato poi che “la Chiesa non è la magistratura e non è la polizia e non è neppure è un tribunale civile, chiamato a distribuire patenti di mafiosità”. E, ancora, che la missione della Chiesa “non sempre può coincidere con l’azione inquirente o punitiva propria dello Stato”.

Il faro, comunque, rilevano, è “l’insegnamento di Gesù sulla conversione e sull’accoglienza del peccatore”, tenendo presente però che “senza un cambiamento concreto, pubblico, senza una vera e propria presa di distanza dalla vita vissuta nel male, non si può parlare di pentimento e di vera conversione. Sono questi i segni indispensabili per un reinserimento pieno del peccatore nella comunità e per un percorso di ricostruzione interiore”. Il monito dei presuli calabresi non risparmia neppure le collusioni tra criminalità e politica.

“La realtà criminale – sostengono – ha raggiunto ormai una dimensione ‘globalizzata’ trovando in alcune frange della politica e dei poteri forti deviati, connivenze e collusioni che le permettono di piegare ai propri fini i suoi alleati, tante volte prezzolati in termini di denaro pulito e sporco, di tangenti, di favori e di raccolta di voti e consensi. Dinanzi a questo scenario la Chiesa si china sull’uomo ferito e grida il suo dolore e la sua indignazione”.

 

Roberta Tito

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